Una rosa rosa posata sull’asfalto, la data “27-12-2018” e la runa “algiz”, nella mistica nazista l’onore ai caduti che torneranno in vita. L’ultima immagine in ricordo di Daniele Belardinelli è la metafora dell’ultrà 2.0. L’epitaffio, il manto che silenzia nell’omertà tutto quanto sta dietro le curve. Gli affari sporchi sotto la coperta del tifo. I legami con il crimine organizzato. Le falde, le cupole e le gerarchie. Un modello italiano copiato dai supporter all’estero. Perché tiene insieme due pezzi: la parte “manageriale”, che cura i guadagni e i rapporti coi club, e il braccio armato che fa il lavoro in strada. La fotografia della rosa rossa per Belardinelli l’hanno posata ieri mattina i nazionalsocialisti della Comunità dei dodici raggi, sotto inchiesta a Varese per tentata ricostituzione del partito fascista.
Quelli tatuati con la scritta “cut one and we all bleed” (“tagliane uno e scappano tutti”) che con “Dede” condividevano gli spalti neri “Blood&Honour”. Gli stilemi della retorica ultrà. L’epica guerresca. «Noi siamo così, ultras nella vita non solo alla partita», ricorda un vecchio capo tifoseria lombardo. «Adesso ne dasperanno un po’. Interisti e napoletani. Ma poi la storia continua e noi ci saremo. Anche dopo i tavoli di governo…». Nel mondo rovesciato delle curve c’è sempre un morto ancora caldo da elevare a martire. Uno che se ne è andato per giusta causa: era lì a farsi avanti, a tendere una trappola con mazze e bomboni, «vedrai alla fine gli renderanno omaggio anche i napolecani» -antico insulto della Nord fascio-interista che non dispiaceva ai leghisti di Pontida.
Curve pericolose e codice: onore, fratellanza, rispetto. Di che cosa, però? Lunedì al Viminale da Salvini e Giorgetti “loro” non ci saranno. Per prudenza e opportunità i vertici del calcio e del governo gli ultrà non li hanno voluti (ci saranno solo referenti dei club di tifosi scelti dalle società). Fossero andati avrebbero mandato qualcuno “pulito”: teste di legno, nomi spendibili per un’operazione politica sulla cui reale efficacia c’è chi non ha solo certezze. Non ci saranno i Boys e i Viking interisti, i padroni della curva Nord di San Siro nei cui drappi si identificano gli assalitori della notte di sangue di via Novara (a partire dal capo e coreografo Marco Piovella detto il “Rosso”). Non ci saranno i “cugini” della “Curva Sud” rossonera: il leader Luca Lucci, spacciatore e mazziere salutato cordialmente dal ministro dell’Interno, il ministro-ultrà Salvini che ancora due giorni fa posta la foto di un selfie insieme ai poliziotti del soccorso alpino e sul cellulare è visibile l’adesivo “Curva Sud”. Il gruppo in mano agente come il “Toro” – il pregiudicato Lucci – il fratello Francesco e gli amici Giancarlo “Sandokan” Lombardi, Marietta Diana, il “Barone” Giancarlo Capelli: tutti già inquisiti.
Al tavolo “sportivo” del Viminale non siederanno nemmeno, per fortuna i Black Devil, altra sigla della curva milanista. Sono capeggiati da Domenico Vottari, detto Mimmo, originario di Melito Porto Salvo: diversi anni di carcere (anche per omicidio) e contatti con la ‘ndrangheta nel nord Italia. Coi fiduciari delle cosche calabresi (clan Sergi e Papalia) ha rapporti anche Loris Grancini, capo dei Viking della Juve, 13 anni per un tentato omicidio. Grancini è amico di ‘Sandokan” Lombardi: capi di due tifoserie rivali. A loro volta acerrime nemiche degli ultrà napoletani della Curva A. Il bacino dove gli investigatori stanno cercando gli “autisti” che hanno tirato sotto Belardinelli.
La Curva A del San Paolo è il regno dei Mastiffs il cui boss era uno già balzato agli onori delle cronache e ora in carcere per droga: Gennaro De Tommaso, Genny ‘a carogna, il mediatore (con le forze dell’ordine) che il 3 maggio 2014 allo stadio Olimpico di Roma placa la sua curva per dare il via libera alla finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli dopo il ferimento di Ciro Esposito (che morirà in seguito agli spari dell’ultrà romanista e neonazista Daniele De Santis).
Dei 420 gruppi ultrà italiani, circa 45mila tifosi, con il 75% delle curve politicamente orientate a destra, quelli della Curva A sono tra i più temuti: e anche tra i più infiltrati dalla camorra. «Controlla il tifo e i clan si dividono i posti in curva», disse l’anno scorso il pm della Dda di Napoli, Enrica Parascandolo. Come non ricordare l’inquietante presenza a bordo campo, al San Paolo, del figlio del boss Salvatore Lo Russo, Antonio, alle partite del Napoli otto anni fa. Il modello della cosca, regole ferree e patti di sangue, e poi capi, emissari, gregari.
Direttivi che decidono gli scontri e si spartiscono la torta dei guadagni (spaccio, biglietti, bar e parcheggi intorno agli stadi). Leader che stoccano cocaina e intanto si accreditano con calciatori, dirigenti e personalità politiche. Esempi da non imitare? Anzi. In Europa il modello italiano è ammirato. A dicembre i tifosi della Torcida verde dello Spoiting Lisbona hanno omaggiato con una coreografia le curve italiane: “Diversi nei colori, uniti nei valori. Ultras da sempre aggregazione e fonte di ispirazione”, era scritto su uno striscione accompagnato dai leghi di 34 gruppi ultrà italiani. Un tempo si sarebbe detto “all’ultimo stadio”, Oggi, forse, siamo oltre.