Se in assoluto può rispondere al vero che la miglior difesa è l’attacco, in ambito calcistico vale anche in termini doppi. Nel senso che quando gli altri reparti aiutano quello arretrato, oltre al rendimento complessivo migliora anche quello dei gol incassati. Quindi, banalmente, aumenta la possibilità di portare punti a casa. Lo insegnano tutti quegli allenatori che hanno dato un’impronta profonda alla storia recente di questo sport. A tener fede all’assunto è riuscita anche la Roma, quantomeno nella scorsa stagione, quando è riuscita a collezionare ben diciotto clean sheet in campionato, ventitré considerando anche la Champions, di cui ben dodici nella prima parte.
Nello stesso periodo dell’anno, a dodici mesi di distanza, sono soltanto sei le partite terminate senza incassare gol. Il computo delle reti subite in Serie A è raddoppiato, da dodici a ventiquattro (da sei a otto in Europa). Fatto salvo il rendimento del portiere – con Olsen che non ha fatto rimpiangere la partenza di Alisson – il problema è da ricercare altrove. Per esempio in un filtro in mezzo al campo che a lungo è stato deficitario, quantomeno prima che la squadra registrasse il nuovo assetto tattico (e saltuariamente anche in seguito). O sugli esterni offensivi, che sono apparsi poco propensi ai recuperi nella fase di non possesso. Al netto della lodevole eccezione di El Shaarawy, più predisposto di altri al lavoro oscuro, fino a quando l’infortunio non lo ha sottratto alla disponibilità di Di Francesco. (…)
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