Non c’è un motivo. Non c’è un motivo per convocare De Rossi, in uno strano pomeriggio di maggio, grigio e malinconico come davvero non può essere, per comunicargli l’addio alla Roma. Non c’è un motivo, professionale, sentimentale, economico, per strappare un filo giallorosso di una ventina d’anni e pensare così di potersi cucire addosso un vestito fatto di programmi, obiettivi, con un occhio al budget e l’altro giù, freddamente inginocchiato alla Ragione.
Non c’è un motivo per partecipare, iscriversi, al nuovo stile del pallone, che si alimenta con le plusvalenze e riconosce le bandiere come un minus. Meglio, eventualmente, innaffiare di rimpianti una conferenza stampa del proprio capitano, abile a tenere dentro, a proteggere, le ansie ed i pensieri, quella rabbia che ti fa gonfiare il collo, una vena in cui scorre, pulsa, sangue di campione. De Rossi che va via da Roma, dalla sua squadra, dalla sua città, da casa sua, è in un tweet del club, in un divorzio senza lacrime, in un abbraccio interminabile ai compagni, in uno sguardo a Totti, in fondo lì, alla sala, i due capitani di un’altra società, di un’altra storia, di un’altra vita, di un’altra epoca, magari.
Perché De Rossi è, come poche altre – le ultime rimaste – una bandiera che viene ripiegata senza star lì a chiedersi cosa ci sarà mai dentro. Perché dentro all’addio di De Rossi dalla Roma non c’è un motivo, se non la fretta di consegnarsi ad un racconto immaginario e inimmaginabile, in cui non contano i sospiri, le grida, le tenerezze e le amarezze, le paure e le speranze, ma soltanto i numeri: l’età, l’ingaggio, i gol e le presenze. De Rossi che saluta, alla sua maniera, un tackle forte, ruvido, mai cattivo, è uno strappo, una ferita, senza un motivo chiaro per sterilizzarla. Fino a dieci giorni fa – scandita per un anno – risuonava la preghiera di ogni conferenza: «Speriamo di recuperarlo, perché la Roma con De Rossi è un’altra cosa».
Detto da Di Francesco, da Ranieri, dagli uomini di campo, da quelli consapevoli che Daniele – sì, Daniele – non sarebbe mai potuto andare in campo per tutto un campionato, ma quelle venti-venticinque volte sì, e sarebbe stato decisivo. La Differenza. Dimenticato tutto, davanti a un anno di contratto, magari un terzo, un quarto, di quanto incassano fenomeni spariti nel giro di un’estate. Non c’è un motivo, tecnico, economico, diciamo così sentimentale, per spingere fuori da Trigoria un capitano, che fino a dieci giorni fa qualcuno – in maniera suggestiva – raccontava come l’allenatore in pectore e oggi non è neppure utile per giocare venti gare ed essere di riferimento nello spogliatoio.
Il calcio è per certi versi misterioso, depositario di piccoli segreti, utopie ed ipocrisie, emozioni che si annacquano, scompaiono, si aggrappano disperatamente alla memoria della gente, dei tifosi, di quelli che non progettano ma soffrono, non guardano ai bilanci – magari a un tornaconto personale – ma in una mano sono pronti anche a raccogliere le proprie suggestioni. Stringendole in un pugno, perché è così – ci hanno detto da bambini – che il sangue corre più velocemente.
E ti sembra quasi di sentirlo, di vederlo, come un giocatore, un campione, un capitano che ti racconterà vent’anni della tua stessa vita. E questo, che non vale solo per De Rossi, ma per tutti quelli che al pallone guardano con un po’ di nostalgia – in uno scambio in cui non bisogna ricevere per forza – nessuno e niente riuscirà comunque a cancellarlo.
FONTE: Tuttosport – A Vocalelli