Era un terreno di coltura per la passione e l’intelligenza, è diventato un vuoto impalpabile. Né carne né sangue in quelle curve. E poca anima. E’ rimasto qualcuno che pensa, ricorda e ha nostalgia dei derby in cui nessuno era solo. La notte ciascuna delle due parti introduceva di nascosto il proprio materiale nelle segrete dell’Olimpico. Di nascosto perché i rivali accusassero l’effetto sorpresa, non perché bisognasse sfuggire allo sceriffo. Erano i derby di cui l’Olimpico era pieno, talmente pieno che non si contavano i biglietti venduti bensì i posti vuoti. Un paio alla volta. Il 25 marzo 2000 a chi risultarono 74.074 spettatori, a chi 74.076 forse perché contarono in due momenti diversi e qualcuno era andato alla toilette. Poco importa: siamo ai limiti della capienza dell’Olimpico. Vinse la Lazio 2-1. Può essere sia stato il derby dei record: non si sa con certezza anche perché lo stadio è stato ampliato, ristretto, sventrato e ricostruito più volte nella sua storia movimentata.
IDEE – La storia, appunto, fa giri strani. Non è che si sia ritornati alla prima volta della Rondinella, dove Volk l’8 dicembre 1929 segnò il gol della vittoria della Roma con giusto 15.000 spettatori davanti (e già la rivalità era fiera), ma diamo tempo al tempo. Oppure, speriamo che i tempi cambino. La storia fa strani giri e non sarà passata per sempre quella voglia di farsi del male e impazzire di gioia e raddoppiare la sfida, dal campo alle curve, laggiù con i piedi, lassù con un confronto di pensiero, sul campo il thriller, nelle curve il noir. Era ancora giovane la crescita del calcio romano, roba da anni settanta con la Lazio serenamente mediocre e la Roma ancora peggio. Entravi e vedevi la parte sud sfrigolare, coperta di bandiere e ventagli di carta gialla e rossa, show perfetto di coordinazione e senso del colore, tifo sincronizzato. La zona laziale nuda, quasi desolata. Poi, apparivano le squadre, si disponevano per l’avvio della partita e improvvisamente, velocemente, la Nord stendeva sul tabellone una scritta fredda e gigantesca: «Ve mannamo in B». Cadeva il silenzio, i ventagli sfuggivano di mano. Capitava questo e anche il contrario, che fossero i laziali a essere zittiti da un colpo basso e semplice, per esempio le facce dei capitani della Roma innalzate lungo tutta la curva accompagnate dall’invito a invidiare quella storia che dall’altra parte, secondo i giallorossi, non c’è mai stata. Non importa sia vero: il tifo non deve diffondere verità, bensì sostenere tesi preconcette.
ADDIO – C’è sempre stata questa differenza tra romanisti e laziali. Per i primi il derby è manifestazione di esuberanza spettacolare, cori e polmoni, gradoni tappezzati di giallorosso come il pullman dei sostenitori che andavano in trasferta negli anni settanta, idea venuta allo storico tifoso Fausto Iosa. Per i laziali si è sempre trattato invece di artistico sarcasmo, il cielo stellato disegnato nel febbraio del 1996 da Massimo Di Clemente, il Caronte che trasportava anime giallorosse e dannate e poi l’aquila perfetta incastrata nel contorno della curva nel 2015. Avevano, hanno questo i laziali: il dono dell’ironia anche nelle proteste, come dopo il successo storico del maggio 2013. Al derby seguente entrarono in ritardo dicendo che tutto quello che doveva accadere era già accaduto e quindi restavano a farsi l’ultima birra. Siccome la Roma vinse, il romanista che sa colpire d’incontro la sera replicò su Internet: «Fuori hai preso una birra. Dentro, du’ pizze». Era ancora questo, il derby. Poi vennero i prefetti, i questori e il derby fuggì.