Dicono che metà della gente di Houston spenderà l’eternità all’inferno. Ma Dan Friedkin sembra appartenere a un mondo di ghiaccio. La freddezza con cui il miliardario texano ha portato avanti la trattativa, imponendo i suoi silenzi alle urla di Jim Pallotta, dettando tempi, modi e costi, indica che il calcio italiano non sta per accogliere l’ennesimo americano, non sbarcheranno stivaloni bianchi da cowboy, ma una persona che il calcio italiano non ha mai avuto.
E neanche il Texas, neanche Houston dove il miracolo non è l’umanità, ma il fatto che sia nata una città. Houston è più aperta di Dallas, ma più chiusa di due terzi del resto degli Stati Uniti. E’ uno di quei posti la cui reputazione la precede: è la quarta più grande d’America, dopo New York, Chicago e Los Angeles, al punto che potrebbe contenere Boston e San Francisco in un colpo solo. Ed è la casa degli Astros di baseball, campioni delle World Series dopo aver truccato le carte.
L’inferno, capite, qui si nasconde anche nel diamante. Lavori duro, hai successo, vivi se hai una carriera o ami qualcuno. Se farete un salto per onorare la casa del Nuovo Padre, vi diranno che a Houston, rispetto all’Italia, le leggi hanno un senso se sono davvero dure, ma poi tutti hanno il parabrezza pieno di multe per eccesso di velocità. Ah: in centro è vietato vendere formaggio Limburger la domenica, anche se nessuno è in grado di spiegarvi il motivo.
Il resto della storia è riempito dal mondo di Friedkin, 54 anni, texano, nato in California, così diverso da tutti da non esistere ancora realmente, se non nell’immaginario collettivo. Golf, piscina, la super villa al River Oaks Country club, lungo la placida Inwood Drive, i balli latinos, le 154 concessionarie di auto riunite sotto l’insegna Gulf States Toyota, gli hotel e resort di lusso in tutto il mondo, dai Caraibi alle isole Fiji, il safari in Tanzania, la casa di produzione cinematografica, la collezione di aerei da caccia. Questa sua multiforme vivacità è la chiave per capire cosa succederà.
Il modo con cui ha lavorato per l’accordo indica già qualcosa: Friedkin non ha mai parlato, mai emesso un solo suono della sua voce, mostrando un’eleganza metafisica quando Pallotta lo ha trattato da straccione chiedendo “soldi veri”. Friedkin ha preso atto, manifestato un’educata amarezza, mai declinata in pelosa irritazione, ma è andato avanti, sicuro di arrivare a dama alle sue condizioni. Nessuna danza di sangue. Nessuna nube purpurea. Il silenzio fa parte di strategie di alto livello.
Nel caso dell’acquisizione della Roma c’era in gioco un club, una società quotata in Borsa e una città famosa nel mondo. Non era il classico tappeto dell’affare raggiunto a metà tra domanda e offerta, come qualcuno pensava. In questi otto mesi Friedkin è rimasto in pieno controllo di se stesso: ha portato avanti un processo industriale e finanziario, passato dalla “due diligence”, per verifi care i conti, alla formulazione dell’offerta, scesa dai 790 milioni di fine dicembre ai 575 del 18 maggio, parte subito e il resto a sei mesi e un anno, più tredici “spezzettature” per le società satellite di Pallotta. E tutto questo, nonostante la crisi della pandemia avesse colpito le numerose aziende del texano, e il patrimonio personale fosse sceso, secondo Forbes, di cento milioni di dollari in cinque mesi, passando da 4,2 miliardi a 4,1. (…)
FONTE: Il Corriere dello Sport – M. Basile