Atlantic City. New Jersey. Un buon compromesso se uno si vuole divertire senza andare fino là, a Las Vegas. Per ogni tipo di divertimento. Compreso, anche se non ci crederete mai, quello casalingo. Così infatti non la pensava neanche Elizabeth Magie, una game designer nativa dell’Illinois, quando nel 1903 inventò un gioco da tavolo che si chiamava The Landlord’s Game. Con questo strumento, che era a metà tra svago e didattica, aveva l’intento di insegnare ad ampio raggio il meccanismo dell’imposta unica sostenuto dall’economista Henry George, di cui era una ferrea seguace. Il gioco acquisisce una discreta popolarità, viene tramandato, subisce una serie di modifiche al regolamento fino a diventare Auction Monopoly. O, più semplicemente, Monopoly.
Alcuni giocatori cominciano a brevettare le loro regole. Tra questi c’è Dan Layman, che nel 1932 cede la propria versione alla Electronic Laboratories di Indianapolis. Il gioco si chiama però Finance, perché alcuni avvocati sostengono che Monopoly sia troppo una parola di uso corrente e di conseguenza poco proteggibile. La licenza finisce alla Knapp Electric, e il gioco viene commercializzato. Quasi contemporaneamente però, tale Ruth Hoskins (di professione maestra) si trasferisce ad Atlantic City e coinvolge alcuni amici ad appassionarsi al gioco che lei aveva imparato da Layman. Lo fa però con i nomi delle vie della sua nuova città. Tra questi amici c’è un certo Charles Darrow. Che fa ulteriori piccole modifiche e comincia a produrlo artigianalmente, finchè la Parker Bros non lo rileva. Immettendo sul mercato una versione molto vicina a quella attuale. E che, soprattutto, si chiama Monopoly.
Parco della Vittoria, per esempio, è la traduzione adattata del Boardwalk, il lungomare di Atlantic City. E’ da quelle parti che il 19 dicembre 1989 (ricorrenza di oggi) è in programma un concerto di dimensioni planetarie. Stiamo parlando dei Rolling Stones. Non è un concerto qualunque. Perchè nel mezzo della fase statunitense dello Steel Wheels Tour, il gruppo chiude un accordo per una diretta televisiva on demand (e ovviamente a pagamento) dello show in programma al Boardwalk Hall, meglio conosciuto come Historic Atlantic City Convention Hall. E’ l’ultima di tre date nella città, e si parla di 3 milioni di dollari di compenso più una percentuale sulle richieste della diretta, che è disponibile in tutto il mondo e ha di conseguenza un discreto bacino di utenza potenziale. Ma prevede una clausola: che il nome della band non venga mai associato al nome del proprietario del Boardwalk Hall.
E’ un magnate newyorkese che si occupa di tante cose. I primi investimenti li fa nell’edilizia borghese di Brooklyn, del Queens e di Staten Island. Successivamente si butta nell’acquisto e nel rilancio di grandi hotel a Manhatthan. Ha una relazione con l’attrice Marla Maples, anche se non ha ancora divorziato dalla moglie: Ivana Zelnickova, una fotomodella di origine ceca che negli anni a seguire continuerà a sfruttare il cognome dell’ex marito. Ad Atlantic City, per restare più nello specifico, apre casinò ed è molto conosciuto per essere un grande organizzatore di incontri di boxe tra pesi massimi. Mike Tyson, in quegli anni, è di casa lì. Si chiama Donald Trump, ne sentiremo parlare.
L’edizione serale del telegiornale della CBS di quella sera è interamente dedicata agli Stones e alla diretta dell’evento. Ma, mentre la band si prepara per l’intervista, il promoter canadese Michael Cohl (all’epoca produttore del tour) sorprende Trump in sala stampa a parlare del concerto con i giornalisti. Prova a convincerlo a smettere, c’è un iniziale rimbalzo di colpe, ma dopo qualche minuto tutto torna come prima. I Rolling Stones vengono a sapere e ovviamente chiedono di scegliere chi tra lui e loro dovesse restare. O, alternativamente, chi dovesse andare via.
Cohl non ha scelta (d’altronde c’è un contratto firmato) e prende la decisione di cacciare l’attuale Presidente degli Stati Uniti da quella che è una sua proprietà. Come in un Monopoli qualunque. Come volevamo fare noi sabato sera allo Juventus Stadium. Ma non ci siamo riusciti. Neanche stavolta. Fondamentalmente perché non siamo stati alla loro altezza nell’interpretazione della partita dal punto di vista della personalità. Ha risolto la giocata del campione, siamo d’accordo. Ma non bastano 20 minuti come quelli per dire che siamo stati alla pari della Juventus. Hanno vinto e meritato loro.
Niente Parco della Vittoria per ora. Ma solo Parcheggio della Vittoria. L’ambizione ferma in seconda fila, continuamente respinta da una squadra che in Italia vince tutto da anni e non sembra avere intenzione di smettere. Il biglietto del parchimetro rinnovato contando minuziosamente le monete in tasca. Il disco orario che gira continuamente. Possiamo avvicinarci ancora. Adesso, per esempio. Nel non accontentarci di dire che abbiamo giocato bene, cosa che peraltro personalmente non ritengo vera. Ma anche nell’apprendere, con totale risolutezza, che loro continuano ad essere più forti. E che hanno vinto, comunque con fatica, una partita che per colpe nostre è rimasta nelle loro corde. Quando i 20 minuti diventeranno almeno 70?