«Lo confesso, pensavo fosse più facile». Nelle parole sussurrate e nel sorriso amaro c’è tutta la delusione di José Mourinho, costretto a fare i conti con una realtà molto lontana dalle abitudini: dopo i sette minuti di blackout che hanno rovinato la partita contro la Juventus, la Roma si è autoeliminata dall’idea di un campionato di vertice.
Dal 1979, quindi 43 anni, non perdeva 9 partite nelle prime 21 giornate. E questo non può essere solo attribuito al livello dei calciatori, che l’allenatore ha definito «medio». Un gruppo di «gente buona», per usare un’altra espressione dell’allenatore, che vale «il sesto o il settimo posto». No, c’è dell’altro: il corto circuito è collettivo e inspiegabile.
Il giorno dopo, con la mente lucida, è ancora peggio. La città si è svegliata con la frustrazione di una sconfitta assurda che neppure il bel sole invernale ha potuto ammorbidire. Mourinho si è confrontato come sempre con i Friedkin e con Tiago Pinto, ribadendo il programma: lavorare per migliorare la squadra, per avvicinarla ai suoi standard tecnici e caratteriali.
La proprietà da parte sua non ne mette in discussione l’operato, a dispetto del «pragmatismo dei numeri» che potrebbe suggerire un cambio di qualunque timoniere, e conta di assecondarne per quanto possibile le richieste: le mosse di mercato vanno in questa direzione, perché sia Maitland-Niles sia Sergio Oliveira sono calciatori segnalati da Mourinho.
Nella loro visione, non esistono decisioni di pancia: un manager, di qualunque compartimento, deve essere giudicato nel medio termine. Certo le continue allusioni all’inconsistenza dell’organico e all’impossibilità di investire se non per i prestiti non aiutano il compito dei Friedkin, che ogni mese immettono 10-15 milioni di tasca propria per garantire alla società il fabbisogno corrente e hanno già investito oltre 300 milioni dopo l’acquisizione del club. (…)
FONTE: Il Corriere dello Sport – R. Maida