Più sembra avvicinarsi una chiusura positiva della trattativa fra Campidoglio e proponenti sul progetto dello Stadio della Roma di Tor di Valle e più si alza il polverone dei contrari a priori, del «no, perché no». Italia Nostra, Legambiente e «gli urbanisti»; l’immancabile Codacons e qualche archistar o vecchie «amicizie» di Berdini, magari ospitate da qualche quotidiano: posizioni che dimostrano un totale pregiudizio ideologico e una conoscenza zero dello stesso. Partiamo da Vittorio Emiliani, sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa. Sicuramente tratto in confusione dall’errore di Berdini, che ha identificato come a rischio idraulico 4 l’area di Tor di Valle (mentre è 3), Emiliani si lancia in un’intemerata contro il progetto con una serie macroscopica di inesattezze: a partire dall’affermazione che, nel progetto preliminare, i proponenti avessero previsto «una zona mista direzionale-residenziale» cioè case e uffici quando la norma è chiarissima: niente case. Per poi proseguire analizzando affermando che «Tor di Valle risulta di difficile accessibilità, non dotata di ferrovie o metro sufficienti». Il sito invece è già edificabile ed edificato (c’è un ippodromo sopra), collegato da una esistente linea di trasporto pubblico (Roma-Lido), è vicino a una metropolitana (Metro B); con un’autostrada (Roma -Fiumicino) e due assi stradali (via del Mare-Ostiense e via della Magliana) che la pongono in diretta connessione con il Raccordo. Emiliani riporta anche l’altro grande feticcio di Berdini: l’idrovora, «che costa altri 9,6 milioni di euro». Ma si tratta di «opere a standard», obbligatorie per legge e che non danno origine a compensazioni. Stesso errore sui parcheggi, che «competono al privato e non al Comune». Anche queste sono opere a standard. E con l’ultima perla: una volta, a cifra piccola, usa i metri quadrati (69mila), un’altra, quando la cifra è alta, usai metri cubi (1 milione). Che Italia Nostra sia contro lo stadio, è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Dopo aver inutilmente speso la carta del rischio esondazione, con reiterata smentita agli atti dell’Autorità di Bacino del Tevere, ora gioca l’ultima partita: riprendere l’esposto che Raggi, Frongia, De Vito e Stefàno presentarono in procura contro la delibera. Ricorso archiviato ma che, per Italia Nostra, dimostra l’incoerenza politica dei 5Stelle.
Per Legambiente, si rifanno i conti e si torna all’inizio: i metri cubi di oggi sono miracolosamente aumentati a 1 milione e 100 e il taglio sarà solo fino a 953mila. Peccato che oramai siamo scesi a 700mila. In aggiunta, come si può dimenticare che, fra le opere sulle quali è stato dato il pubblico interesse, vi sono anche i finanziamenti per il trasporto pubblico? Per Legambiente si può se serve ad alimentare polemiche! Né poteva mancare l’immancabile Codacons, sempre in prima fila nel presentare ricorsi. Che, più che altro, come nel caso del Colosseo, finiscono solo con il far perdere anni di tempo. Qui, la motivazione è «Il mancato coinvolgimento dei cittadini nell’iter sul nuovo stadio» che, secondo Carlo Rienzi, presidente del Codacons, «rischia di inficiare qualsiasi provvedimento dell’amministrazione; per questo chiediamo al sindaco Raggi di inserire il Codacons e le associazioni ambientaliste nel progetto». Peccato che, durante la fase preliminare l’approvazione della delibera di pubblico interesse, l’allora assessore Caudo ebbe un trimestre di riunioni con associazioni e cittadini nel tavolo di concertazione sullo Stadio. E che, in conferenza decisoria, sono già state ammesse tutte le varie associazioni. Da ultimi, «gli urbanisti». Una pattuglia di 25 fra architetti e ingegneri, tre dei quali romani e gli altri quasi tutti fiorentini con un paio di innesti di Venezia, Bari e Bologna, che prendono spunto dalla vicenda dello Stadio per lanciare alte grida di dolore sul fatto che «il pubblico» viene subordinato «agli’interessi» finanziari dei proprietari fondiari, dei costruttori, delle banche, pronti a mettere in campo tutte le relazioni e i poteri di cui dispongono per assicurarsi la legittimazione «pubblica dei loro profitti». In pratica, una visione da esproprio proletario degli anni ’70. Poi, se si va a vedere di chi sono le firme sotto questo anacronistico manifesto, viene fuori che sono tutti nomi dello stesso giro di Berdini: riviste, convegni, pubblicazioni, siti. Insomma, il mondo del «no, perché no», spara le sue ultime cartucce. A salve.