“In America lo sai che i coccodrilli vengon fuori dalla doccia”, cantava Samuele Bersani nella sua Coccodrilli. Lo faceva, stando almeno a quanto ci mostra il videoclip, filmandosi con una piccola telecamera digitale in mezzo a una delle piazze più famose del mondo. Nei cui sotterranei, per inciso, è ambientata la maggior parte delle leggende metropolitane sugli alligatori che vivono nelle fogne. Mai confermate ufficialmente, per quanto negli anni ’30 Teddy May (sovrintendente del settore) fece un’ispezione di persona e dichiarò di averne visti parecchi, seppur fossero di piccole dimensioni. Ma anche la sua relazione venne giudicata parecchio romanzata.
La mia passione per la musica era in netto aumento. Quella per un certo tipo di cantautorato, di cui Samuele Bersani potrebbe essere degno capofila, anche. Era l’estate del 1997, il singolo di lancio del suo album omonimo. Forse inconsciamente, con la facoltà di esplodere con il passare del tempo e del continuo affinamento personale della concezione del mondo che ci circonda, cominciò anche la mia ammirazione per quella che nell’antichità era una zona che John Morin Scott, generale al servizio di George Washington e proprietario dell’area, aveva adibito a coltivazioni e allevamento di cavalli.
La terra divenne successivamente proprietà di John Jacob Astor, un tedesco che si fece largo come commerciante di strumenti musicali prima e pellicce poi. Era arrivato in America da poco, insieme al fratello George. Un altro fratello, di nome Henry, fece lo stesso percorso ma si buttò su altri affari: appassionato di ippica, comprò un purosangue di nome Messenger. Che diventerà il capostipite della razza dei Trottatori Americani. John Jacob, invece, sposa la facoltosa Sarah Todd (figlia del suo padrone di casa e discendente, da parte materna, dei mecenati olandesi Brevoorts) e grazie a lei comincia a finanziare una serie di progetti.
Gli Astor diventano così una delle famiglie più ricche della città. Lo fanno anche vendendo quei lotti di terreno ai costruttori di hotel e ad altre società immobiliari, in un momento di grande crescita commerciale. Chiaramente quando non si limitano alla compravendita di proprietà, edificano: il famosissimo (e poco distante) hotel Waldorf-Astoria, per esempio, non è un caso di assonanza. Proprio uno dei nuovi grattacieli della piazza fu costruito appositamente perché Adolph Ochs ci spostasse la sede del giornale di cui era editore. Convincendo anche il sindaco dell’epoca, George McClellan Jr., a fornire la zona di una fermata della metropolitana. Nell’aprile 1904 l’area prese la denominazione di Times Square.
Non so quanti di voi siano stati almeno una volta nella vita a New York. E’ una città che, a mio avviso, ti ruba letteralmente un pezzo di cuore. Ti dà la sensazione di vivibilità nonostante sia immensa e mediamente caotica. Dove “mediamente” è direttamente proporzionale alle dimensioni, di cui ci si fa un’idea ben precisa dall’osservatorio che c’è in cima all’Empire State Building. C’è un polmone verde come Central Park che ti estranea dal paesaggio metropolitano di Manhattan, pronto a ricominciare appena ne esci. Se a Roma si respira storia in ogni angolo, a New York c’è cultura moderna in un qualsiasi metro quadrato. Si, il Moma. Si, Broadway. Ma se vi capita fate il tour del Radio City Music Hall. Quando la guida vi porterà su un piccolo ascensore che collega retropalco e camerini e vi dirà una cosa come “Liz Taylor use this elevator, Michael Jackson use this elevator” non rimarrete insensibili.
Era un sabato mattina, freddo come pochi. Fuori e dentro, perché era il giorno del rientro e da quella città non ti volevi staccare. Già sapevo che da lì a qualche ora sarei stato sulle poltroncine del JFK, come Michael Stipe nel video di Leaving New York, dichiarazione d’amore dei R.E.M. a quella che il loro leader (originario, come la band, dello stato della Georgia) considera la sua seconda casa. Nello stesso posto di Michael Stipe, con la stessa faccia di Michael Stipe, con le stesse parole della canzone. “Leaving New York never easy”, se ti sei fatto prendere dalla città non c’è niente di più vero.
Se c’è un modo per provare a rendere meno difficili i distacchi, è probabilmente quello di fare le stesse cose di sempre. Dandoti l’effimera illusione che sarà una giornata che non avrà niente di meno, e neanche niente di più, delle precedenti. A cominciare dalla prima mattina. Audrey Hepburn mangiava biscotti danesi sulla 5th Avenue davanti alle vetrine di una famosa gioielleria. Che aprirono per la prima volta nella storia la domenica mattina giusto per le riprese di Colazione da Tiffany. Per quanto riguarda invece me e nello specifico le volte in cui sono all’estero, o alloggio in un hotel che fa di quel servizio una delle caratteristiche di punta, o ho scoperto un bar nelle vicinanze che fa di quel servizio una delle caratteristiche di punta, oppure non c’è un altro posto per la colazione che non sia Starbucks.
E’ un locale piuttosto piccolo, sulla 7th Avenue. Nelle immediate vicinanze, manco a dirlo, proprio di Times Square. Come ampiamente risaputo, in base a un rituale che sta diventando di uso comune, quando ordini in uno Starbucks lasci il nome al commesso, in modo chelo possa scrivere sul bicchiere della tua bevanda per poi chiamarti quando è pronta. Avevo già tra le mani il mio Cappuccino tall quando sento chiamare un nome italiano. Lo sento distrattamente, è del tutto normale l’idea di essere contornati da connazionali. Magari neanche lo è, un connazionale. Magari è uno del posto con origini inconfondibili. Sto mangiando con assoluta dedizione il mio Double Chocolate Brownie quando il ragazzo dal nome italiano si siede dietro di me, prende il cellulare e comincia a registrare un messaggio audio: “Ahò fratè, me so svejato”.
Il sorrisetto stralunato si apre un po’. Ma, d’altronde, è del tutto normale anche l’idea di essere contornati da romani. Non dò peso alla cosa, non voglio farlo. Non sarebbe giusto. Ma il messaggio audio continua, e le parole più o meno sono queste: “Ho guardato le formazioni, t’hanno messo in panchina”. Comincia a venirmi il fondato sospetto che il destinatario sia uno sportivo professionista. Uno dei tantissimi professionisti dei tantissimi sport che si praticano nel mondo. Fare un collegamento immediato tra il suo accento e il mio tifo è del tutto fuori luogo. A quel punto, però, il ragazzo elenca alcuni nomi di battesimo di giocatori a me inconfondibilmente noti, che stando a quanto ha visto sarebbero stati messi titolari. Per la precisione a centrocampo e in difesa, se mai fossi stato così scettico da non credere (dando la colpa ai miliardi di coincidenze che ci circondano tutti i giorni) che i nomi fossero gli stessi ma lo sport in questione non fosse il calcio. E di conseguenza la squadra in questione non fosse la Roma. Che, giusto per mettere ogni pezzo al suo posto, da lì a qualche ora sarebbe scesa in campo. Chiudendo con un classico: “Famme sapè”.
Fermi tutti. Seguono lunghi minuti in cui la mia indecisione riguarda il chiedergli qualcosa o meno. L’invadere la sua privacy o meno. Decido di adottare ilbasso profilo. O meglio, non decido neanche. Avendo finito la mia colazione, torno in hotel a mettere a posto le valigie. Anche perché non voglio passare per uno che non si è fatto gli affari suoi. Mi sono già alzato quando gli suona il cellulare. Mi risiedo. Si salutano, parlano di cose private e altre meno, di alcuni compagni, infortuni e movimenti di mercato. Ovviamente avevo già passato in rassegna mentalmente tutta la rosa per cercare di capire chi fosse. La scelta era caduta abbastanza convincentemente, per tutta una serie di fattori, su un giocatore in particolare. Erano in videochiamata, e sporgendomi un po’ riuscivo a vedere parte del viso di chi stava dall’altra parte. Abbastanza per capire che avevo indovinato.
E’ stato bello sapere di essere al centro del mondo, ma sentirsi così vicino a casa. O quantomeno a dove un pezzo del tuo cuore sta regolarmente. In attesa che un altro frammento rimanga lì, da quelle parti. Da Starbucks, a Times Square, o dove si sente più a suo agio. Mentre tu vai nello stesso posto di Michael Stipe, con la stessa faccia di Michael Stipe. Ma tutto sommato a me è andata anche meglio che a Michael Stipe. Perché al JFK ho trovato uno sports bar dove, tra le tante, facevano vedere la Roma. Mi è andata meglio ma la faccia non è cambiata di molto.
Un Roma-Empoli. Uno dei tanti. Molto diverso da quello di sabato. Spiato in un continuo camminare avanti e indietro in prossimità dell’ingresso, con lo sguardo sullo schermo che trasmetteva la partita. Il giocatore della videochiamata era effettivamente in panchina, mentre un cameriere continuava ad uscire e a sorridermi come per invitarmi a entrare. Cosa che avrei anche fatto, se solo i prezzi del menù esposto avessero avuto la stessa capacità di accoglienza del suddetto cameriere. Che sfoggiava un’impeccabile cortesia professionale ma in fondo si vedeva benissimo che dentro di sé mi stava dicendo: “Ma si può sapere che cosa vuoi?”