Oggi la grande domanda sulla Roma riguarda il suo presidente. Dice James Pallotta: «Se non avrò lo stadio entro il 2020 la Roma avrà un nuovo proprietario». C’è qualcosa di preoccupante in questa prima persona, nel tono vagamente imperativo – di sfida – nelle parole di un uomo che viene nella città della sua squadra e parla la lingua fredda del conquistatore, invece che quella calda di un cittadino adottivo. Pallotta è un uomo d’affari, ma anche una persona intelligente: dovrebbe aver colto il segnale di uno stadio gremito che in modo unanime lo fischia. Durante il “Totti day” c’è voluta tutta la generosità e lo straordinario senso dei tempi del numero 10 per salvarlo: solo Totti poteva intervallare l’abbraccio a Pallotta e la stretta di mano a Monchi (giustamente risparmiato dalla contestazione) per attenuare i fischi prima che diventassero una umiliazione, fatto pubblico e “politico” irreversibile. I romanisti viscerali sui social hanno coniato un geniale neologismo, “Spallotta”, che accomuna i due bersagliati eccellenti del Totti day, ai loro occhi responsabili del mobbing al Capitano. Il vero problema è che le parole di Pallotta – che di certo capisce gli umori, il senso di uno stato d’animo – non solo non sono conciliative, ma suonano oggettivamente aggressive. Sono una minaccia non tanto agli amministratori romani (che malgrado il cambio giunta confermano il sì allo stadio) ma a tutta la città.
È come se Pallotta comunicasse una preoccupante inversione di priorità: e cioè che se gli importa della Roma, è solo in funzione dell’affarestadio. Mentre è vero il contrario: Pallotta dovrebbe avere a cuore lo stadio perché è presidente della Roma. Invece le sentenze sibilline si alternano agli slogan e non spiegano mai il progetto. Serve chiarezza: perché, anche se tra permessi e cronoprogramma dei lavori si volasse, lo stadio non può arrivare prima di tre stagioni. Mentre i prossimi i tre campionati che la Roma affronterà (senza Tor di Valle, in ogni caso) ridisegneranno i rapporti di forza della serie A per un decennio: a Napoli e Juve, dopo i riassetti societari appena compiuti, si aggiungono le due Cino-milanesi. Che (come dimostra l’affare Kessie), dopo un periodo di sbandamento, ripartono con enormi capacità di spesa. La tregua è rotta. Se Pallotta si illude di poter affrontare lo sbarco in Normandia con i prestiti a diritto di riscatto e il mercato-vetrina, sbaglia di grosso. Ma siccome tutto gli può mancare, fuorché l’intelligenza, deve cogliere il senso vero di quei fischi. Capire, cioè, che in un passaggio epocale, lui ha un dovere e una priorità: investire nella squadra, subito, per farla restare competitiva domani. Se l’obiettivo è davvero vincere, i bei tempi delle plusvalenze creative e degli “scudettini” è finito.