Pensate a due promesse della musica che, poco prima di diventare famosi, passano una notte a vandalizzare i muri della propria città. Di questa città. Lei si chiama Kathleen Hanna, un futuro come leader delle Bikini Kill e, nell’immediatezza di allora, l’ironia di scrivere sul muro di casa dell’amico “Kurt smells like teen spirit”. E’ una presa in giro neanche troppo velata, perché il Teen Spirit è un deodorante dell’epoca molto in voga tra le ragazzine. Il mercato cosmetico femminile è da sempre erroneamente snobbato dagli uomini. Tanto che lui, l’amico, la intende invece in maniera letterale. Come un riconoscimento alla sua anima ribelle, con la spavalderia tipica del maschio giovane. Che nell’individuo medio è destinata a razionalizzarsi con gli anni. Ma dato che Kurt di cognome fa Cobain, non è per niente detto che sia andata così.
Il testo di Smells like teen spirit prenderà forma però solo poche settimane prima delle registrazioni di Nevermind, l’album che metterà i Nirvana e il loro grunge sul trono musicale dell’area geografica che pure diede i natali a Jimi Hendrix. Quindi siamo avanti esattamente di 20 anni. Perché la nostra storia comincia a Seattle, ma nel 1971. Quando tre ex compagni di studi aprono una piccola torrefazione a Western Union, con l’ambizione di trasferirsi quanto prima a vendere caffè al famosissimo Pike Place Market. Che è un mercato pubblico sul lungomare di Elliott Bay. Dal 1907 non ha mai interrotto la propria attività e, nel suo piccolo, è al numero 33 della classifica delle attrazioni turistiche più visitate al mondo.
Ci riusciranno qualche tempo dopo, nel 1977. Lo straordinario sviluppo imprenditoriale che ne segue è però da attribuire a un rappresentante della Hammerplast, una ditta svedese che forniva loro alcuni macchinari necessari al processo industriale. Gli ordini sono troppo ingenti per non attirare l’attenzione e la curiosità di una personalità intraprendente come quella di Howard Schultz. Che si interessa al progetto e ne diventa responsabile marketing. Poi di fronte alla reticenza dei proprietari a ricalcare il modello della caffetteria italiana, che ha ammirato durante un soggiorno di lavoro tra Milano e Verona, si mette in proprio e ne apre una tutta sua che chiama Il giornale. Le cose vanno talmente bene che nel 1987 ha disponibilità tali per rilevare tutti i sei Starbucks di Seattle. Dando il via al successo di uno dei marchi più famosi del mondo.
Tuttavia il rapporto tra lui e la città si andrà incrinando. Per altri motivi. Howard Schultz è di Brooklyn e ha origini ebree. E come la maggior parte di chi è di Brooklyn e ha origini ebree ha una sola grande passione: i New York Knicks. L’amore per il basket lo porterà a comprare i Seattle Supersonics. I problemi inizieranno quando li rivenderà a un gruppo di investimenti di Oklahoma, capitanato da tale Clayton Bennett. Che, contrariamente alle dichiarazioni di facciata, finirà per spostare la squadra.
Invece l’uomo che sta per riuscire nell’impresa di portare Starbucks nella terra che fu la sua fonte di ispirazione, è un imprenditore che con il calcio qualcosa c’entra. E il rapporto tra lui e la sua città è invece saldissimo. Tanto che gioca persino con la maglia della squadra locale, che è l’Atalanta, in serie A negli anni ’70. Ma chiude presto la carriera perché il richiamo manageriale è troppo forte. Ramo immobiliare, poi è parte attiva nell’apertura dei primi negozi Benetton a Bergamo. Nel 1990 diventa per la prima volta presidente dell’Atalanta. Esattamente 20 anni dopo riprende quella che è la sua carica attuale.
I colpi che gli riescono meglio sono però evidentemente quelli legati ai grandi marchi, tanto che una quindicina di anni fa prende contatti con quello che Forbes dice essere il secondo uomo più ricco al mondo. Ovvero lo spagnolo Amancio Ortega, patron di Inditex e di tutto quello che ne è collegato. Così porta in Italia i primi negozi di Zara, catena di moda che mosse i primi passi proprio in Galizia. Dove concettualmente nasce questa Roma, a seguito della pesante sconfitta nell’amichevole dal sapore vagamente scaramantico (vedi precedente dell’agosto 2000, quando Di Francesco era in campo, finì con un pareggio per 1-1 e l’annata si concluse piuttosto bene) contro il Celta Vigo.
Saremo eternamente grati al presidente Antonio Percassi per questa operazione commerciale (la sensazione è che lo sarà anche lui) che prenderà il via da Milano ampiamente annunciata dalle tanto discusse palme in piazza Duomo ma adesso spazio per favore che abbiamo da fare. Il campionato comincia con una vittoria che non regala niente dal punto di vista stilistico ma può pesare parecchio nell’economia del torneo. C’è tanto da migliorare, il gioco di Di Francesco non si è visto minimamente. Ma quantomeno il carattere dimostrato nel difendere il gol di Kolarov non è da sottovalutare.
L’anno zero della Roma, inteso come lo 0 senza l’1 davanti, è affidato a chi esattamente 20 anni prima (perché se c’è un fil rouge che lega questa storia probabilmente è proprio questo periodo temporale) varcava il cancello di Trigoria con la mansione di centrocampista di fatica. Quello che lui stesso identificherebbe come “intermedio”, in quel modulo standardizzato che strizza l’occhio alla filosofia che aleggiava da queste parti proprio in quell’estate del 1997.
Salah è andato a Liverpool e ha ricominciato da dove aveva finito (cioè risultando decisivo in quanto a gol e occasioni create), Rudiger è titolare nel Chelsea, Paredes è finito addirittura in Russia. Mentre Szczesny e Spalletti sono e presumibilmente saranno due colonne portanti del futuro di Juventus e Inter. Quello che nessuno ha sottolineato troppo è che non sono le uniche differenze rispetto allo scorso anno, chiuso con un secondo posto da cui è giusto pensare di ripartire.
Alla Roma è cambiato qualcosa dopo 25 anni. Perché se il contributo in campo è andato assottigliandosi di pari passo con l’età anagrafica che presto o tardi non fa sconti nemmeno ai campioni, è innegabile che non sappiamo che effetto farà. Non vedere la maglia numero 10, o non leggere quel nome nelle formazioni. Quello che Francesco De Gregori, grande romanista, parafrasando la sua Compagni di viaggio chiamerebbe “il codice d’ingresso al nostro dolore”. Al nostro dolore semplicemente sportivo, ovviamente. Una password a 10 lettere, che 10 non sono e difficilmente possono essere in ogni combinazione tra nome, cognome e soprannomi vari. In sintonia con quella magia impossibile che ha continuamente accompagnato le gesta pallonare di Francesco Totti.
Il calendario è meticoloso nel suo incedere innegabile. Ma è (stata) forse troppo miope la concezione della condizione attuale che vede Totti nella sua nuova veste dirigenziale. Per quanto gestita, in linea con il personaggio, con la leggerezza di jeans e camicia del primo allenamento e con l’aria spaesata della prima tribuna. Di quello che è lì ma soltanto perchè costretto. A ogni piccola o grande disfatta di chi sarà adesso la colpa?