Il primo gol della Roma in Coppa dei Campioni ha il nome di Francesco e il cognome di Vincenzi. Attaccante classe 1956, approdò in giallorosso all’età di 27 anni dalla Pistoiese. Dopo aver segnato tanto in Serie B, Dino Viola decise di ingaggiarlo e di fargli fare il grande salto nella squadra campione d’Italia. È il 14 settembre 1983, la Roma di Liedholm ospita gli svedesi del Goteborg per il debutto nella massima competizione europea, con lo scudetto cucito sul petto. Succede tutto nella ripresa: al 5’, Falcao coglie un palo con un destro dalla distanza. La palla torna giocabile per Vincenzi che, in spaccata e con lo specchio della porta vuota, insacca per il vantaggio romanista. Finisce 3-0, la terza marcatura di Cerezo viene celebrata come un inno al gioco del calcio. Finta, controfinta, palla che c’è, palla che non c’è, gol.
Partiamo dalla sua esultanza, Vincenzi. La corsa sotto la Sud, gli abbracci, l’emozione… “Lo ricordo benissimo quel momento, anche se sono passati 34 anni. Fu una cosa stupenda, impattare quella sfera di cuoio e poi andare a festeggiare con i nostri tifosi. Devo ammetterlo, ho girato tanto in vita mia, ma la tifoseria romanista è qualcosa di unico nel suo genere. Solo a Roma poteva succedere quel che è successo con Totti il giorno dell’addio. È gente che sa regalarti sensazioni indescrivibili”.
Lei veniva da Pistoia, dalla Serie B. Si sarebbe aspettato tanta roba tutta insieme? “Guardi, quando aveva 18-19 anni avevo segnato in Coppa UEFA con il Milan, quindi non era un novello nelle coppe europee. Ma fare gol in Coppa dei Campioni, per quella Roma di grossi calibri, fu senza dubbio un’emozione senza pari”.
Perché scelse la Roma? “Giocavo a Pistoia in Serie B. A gennaio avevo segnato 10-12 gol, ero uno degli attaccanti migliori del campionato. Mi prospettarono così di andare alla Fiorentina o alla Roma. Scelsi i giallorossi, per ovvie ragioni. Stava per vincere il campionato e avrebbe giocato la Coppa dei Campioni. Rifiutai Firenze, dove mi avrebbero garantito un posto da titolare. Feci bene, anche se restai per un solo anno. Quella d Liedholm era una squadra particolare, speciale”.
Speciale? “Noi giocavamo a calcio, con la c maiuscola. Esprimevamo il miglior gioco d’Europa, senza dubbio. Eravamo schierati a zona, ci muovevamo tutti, per le altre squadre era complicato affrontarci. Stavamo anni avanti rispetto a tanti altri. Perdemmo in finale con il Liverpool quella coppa, ma restò comunque un’annata esaltante”.
Che rapporto aveva con il presidente, Dino Viola? “Un rapporto schietto, sincero. Io ho sempre detto quello che pensavo, pure in faccia a lui. Le racconto questa: il contratto me lo fece firmare il presidente in persona e lui si occupò del mio stipendio. Quando andai da lui in ufficio mi fece la proposta. Io risposi che non mi stava bene perché c’era chi guadagnava di più. E lui: “Guardi che lei gioca nella Roma, si deve sentire onorato”. Non andai oltre e accettai. Ma poi mi rimproverò: “Lei è proprio un bresciano…”. E aggiunse: “Stasera prenda sua moglie, che la porto a cena fuori”. Io rimasi stupito: “Come fa a sapere che sto qui con mia moglie”. Lui mi guardò negli occhi e sibillino disse: “Io so sempre tutto”. Poi ne successe anche un’altra, proprio dopo il gol al Goteborg”.
Racconti… “Qualche giorno dopo quel gol, durante un allenamento a Trigoria, entrò in campo e disse a Liedholm di fermare la seduta di lavoro. Così, tutti si girarono verso di lui per capire il motivo. Viola venne verso di me. Io pensavo che si voleva congratulare per la rete, così scherzai e gli feci una battuta: “Presidente, mi deve dare un premio in più per aver segnato in Coppa dei Campioni”. Rispose a modo suo: “Vincenzi, quel gol che ha fatto lo avrei segnato pure io”.
Lo ha già menzionato: Nils Liedholm… “Era un tecnico di poche parole, bravo tatticamente, ma pure uno psicologo. Si faceva capire benissimo anche solo con un gesto. Ne ho avuti tanti di allenatori importanti in carriera come Mazzone, Trapattoni, però lui metteva tranquillità in un contesto dove ti dovevi far sempre trovare pronto”.
Il capitano, Agostino Di Bartolomei… “Era il leader, anche se non amava fare tantissimi discorsi. Si prendeva a cuore le situazioni di tutto il gruppo andando a parlare con la società quando serviva. E come lui, anche gente come Paulo Roberto Falcao e Bruno Conti faceva sentire il proprio carisma. La squadra era formata da tante teste pensanti, remavamo tutti in un’unica direzione. Guai a chi faceva il contrario”.
Restò in giallorosso un solo anno. Motivo? “Dovevo scegliere: fare il titolare o continuare a giocarmi il posto come avevo fatto nella Roma. Mi chiamò Mazzone e mi invitò ad andare ad Ascoli dove sarei stato un giocatore importante. Accettai, e poi segnai alla Roma in un Ascoli-Roma 1-1 del 1986”.
Della Roma di oggi guidata da Di Francesco, invece, che idea si è fatto? “La squadra è forte, completa di giocatori importanti in ogni reparto. Ora è importante che il gruppo segua Di Francesco riportando sul campo le sue idee. Solo così si può fare qualcosa di positivo. A prescindere dai ruoli, dal sistema di gioco, serve pazienza e voglia di lavorare. E De Rossi deve essere il leader di questo gruppo”.
Vincenzi che allenatore è diventato? “Cerco di essere me stesso. Alleno il Castellana, una società della provincia di Mantova in Eccellenza. Sul campo ho assimilato i concetti tattici dei tecnici avuti in passato, ma poi ritengo che sia molto importante guidare il gruppo al meglio e tenere lo spogliatoio unito”.
Un tecnico ad alti livelli deve badare più alla tattica o all’aspetto gestionale della rosa? “Bella domanda, difficile rispondere. Diciamo che le due cose devono andare di pari passo. Puoi avere le idee più giuste del mondo da insegnare, ma poi se non riesci a entrare nella mente di venti giocatori diventa difficile vederle applicate in campo. Per loro è facile, per i ragazzi intendo. Devono sentire una sola persona e fare quello che gli viene detto. Per un allenatore è tutto più complicato perché devi avere a che fare con tanti cervelli diversi”.