Quando le Olimpiadi del 1968 vennero assegnate a Città del Messico, i dubbi sulle condizioni climatiche erano parecchi e obiettivamente plausibili. Praticare sport a più di 2400 metri d’altura non rientra tra le condizioni ideali. Ma i messicani, nelle 180 pagine che avevano stilato a supporto della loro candidatura, avevano minuziosamente descritto in tre lingue diverse ogni particolare. Anche quelli atmosferici. Avranno ragione loro.
Gli atleti non soffrono il minimo problema. Anzi, in alcune discipline i vantaggi dell’altitudine (e della conseguente rarefazione dell’aria) vengono sfruttati per stabilire nuovi record mondiali. Ma gli episodi più famosi di queste Olimpiadi sono, non potendo ovviamente prescindere dal momento storico, di carattere extrasportivo. Il più conosciuto avviene durante la premiazione per la gara dei 200 metri. Quando Tommie Smith e John Carlos, i due afroamericani che arrivarono primo e terzo, ascoltarono l’inno con il pugno chiuso alzato indossando un guanto nero, in segno di protesta contro il razzismo. Contribuiranno alla vittoria degli USA nel medagliere, ma pagheranno il loro coraggioso gesto.
Come la ginnasta cecoslovacca Vera Caslavska. Ultima campionessa ad avere un fisico strutturato, prima dell’era in cui i sospetti sull’età delle atlete erano ragionevolmente volti al difetto. Lei invece aveva certamente 26 anni ed era la donna più famosa della Cecoslovacchia. Qualche mese prima fu tra quelli che firmarono il Manifesto delle duemila parole, l’appello con cui il movimento democratico cecoslovacco tentò di arginare l’invasione russa. Invano. A quel punto, veniva data la possibilità a chi aveva firmato di evitare l’arresto ritirando i propri intenti. Lei si rifiutò, e si nascose tra le montagne della Moravia ad allenarsi. Il regime non le impedì di andare in Messico, ma solo perché sarebbe stato altamente controproducente.
Alle Olimpiadi vinse quasi tutto. Tranne la trave, dove una strana decisione arbitrale le tolse la possibilità di arrivare all’oro. Che vinse anche nel corpo libero, dovendo però dividere il gradino più alto del podio con Larisa Petrik. Il cui punteggio era stato alzato in maniera poco trasparente e che per una strana coincidenza, ma neanche tanto, gareggiava per l’URSS. Durante la premiazione, la Caslavska si rifiutò di guardare la bandiera sovietica e di ascoltarne l’inno. Le costerà l’addio forzato alle competizioni.
In Messico la adoravano e lì si era addirittura sposata con il connazionale mezzofondista Josef Odlozil durante la manifestazione. Un evento che portò diecimila persone sul posto a seguirlo. Ma decise di rientrare in patria, affrontando le decisioni del regime. Niente gare e una serie di divieti tra cui persino quello di allenare. Non ritirò mai la sua firma e dopo più di una decina d’anni la lasciarono tornare, stavolta si convinse, in Messico. Dopo che da là minacciarono di interrompere le esportazioni di petrolio verso Praga. Quando queste ultime invece terminarono per motivi strettamente commerciali, lei fu costretta di nuovo a tornare.
Storie di donne straordinarie anche perché queste saranno le prime Olimpiadi a scegliere una donna come ultima tedofora, la velocista e ostacolista Norma Enriqueta Basilio Sotelo. Che compie il proprio tratto e il conseguente proprio compito sotto gli occhi di Gustavo Diaz Ordaz, Capo di Stato in carica. Il suo mandato fu molto criticato, a maggior ragione durante quei giorni, e anche sua moglie Guadalupe Borja fece parecchio parlare di sé.
L’anno prima aveva infatti fatto imprigionare Irma Consuelo Cielo Serrano Castro. Più comunemente conosciuta come Irma Serrano, detta la Tigresa. Cantante e attrice, sublime interprete della cancion ranchera che si costruì anche una carriera politica di un certo livello. E’ stata infatti senatrice del suo stato natale, il Chiapas. Lo è stata appena dopo il “levantamiento”, l’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale che il 1 gennaio 1994 occupò sette comuni della zona per protestare contro il North American free trade agreement, un accordo tra USA, Messico e Canada per favorire il commercio tra questi stati, che entrava in vigore quel giorno.
Irma Serrano sarebbe stata colpevole di aver fatto una serenata con tanto di mariachi al seguito a Diaz Ortiz nella residenza presidenziale di Los Pinos. Successe in occasione della fine della loro relazione clandestina, ma non è dato sapere se questo peggiorò ulteriormente le cose. Diaz Ortiz comunque non disdegnò, tanto da omaggiarla di un regalo dal valore simbolico: il letto appartenuto a Carlotta del Belgio, moglie di Massimiliano I, un austriaco membro degli Asburgo che diventò Imperatore del Messico in seguito all’invasione da parte dei francesi iniziata nel 1862. Irma Serrano confermerà ma parecchi anni dopo. Prima di essere nuovamente arrestata per aver minacciato con una pistola un ex inquilino di una sua proprietà.
Parlare di lei senza citare la sua carriera artistica sarebbe però ingeneroso. Anche perché involontariamente ispira l’arte di un giovane musicista parigino. E’ figlio di un giornalista spagnolo, originario di Vilalba, Ramon Chao. La madre è basca, di Bilbao. Scappano dalla dittatura di Francisco Franco, e si rifugiano nella zona suburbana di Parigi. Tra Boulogne-Billancourt e Sevres, per essere precisi. Il suo legame con il Sud America è effettivamente forte sin da subito. Perché i genitori accolgono nella loro casa parecchi artisti anch’essi in fuga dalle dittature di quella zona di mondo.
Nel 1987, insieme al fratello e al cugino, forma i Mano Negra. Lui prende il nome d’arte di Oscar Tramor. Lo prende proprio da una vecchia canzone di Irma Serrano. Cioè: le parole della canzone, nonché il titolo, erano “busca otro amor”. Il giovane musicista subisce l’influenza sudamericana ma non ha delle basi di conoscenza solide, e la sua traduzione maccheronica di quel testo diventa “Oscar Tramor”. Poco importa, avrà tempo e modo di rifarsi: nella sua carriera canterà in spagnolo, arabo, galiziano, inglese, francese, portoghese. Addirittura wolof, la lingua del Senegal. Che nella musica ha la sua espressione maggiore (mischiata all’inglese e al francese) in 7 seconds, grandissimo successo del 1994 firmato dal senegalese Youssou N’Dour e dalla svedese Neneh Cherry. Canterà anche in italiano, neanche a dirlo.
Nel frattempo Josè Manuel Arturo Tomas Chao Ortega modifica anche il suo nome d’arte, che diventa quello con cui lo conosciamo, ovvero Manu Chao. Si butta nella carriera da solista perché i Mano Negra si sono sciolti così come si sono formati, cioè dopo un tour in Sud America nel 1995. Il loro ultimo album rimarrà Casa Babylon, nella cui tracklist fa bella mostra di sé una canzone dedicata ad un grande personaggio ovviamente sudamericano.
Santa Maradona non è comunque l’unica canzone che gli dedicherà. Perché in Maradona by Kusturica, il film che Emir Kusturica ha girato a Napoli sul Pibe de Oro nel 2008, anche Manu Chao fa la sua serenata. In pieno giorno, con meno sentimentalismo ma non per questo meno ammirazione. Anche perché il destinatario è lì davanti a lui e lo guarda sorridendo. Inizialmente. Un grosso paio di occhiali da sole non permette di leggere nei suoi occhi mentre ascolta La vida tombola. Ma lascia semiscoperta un’espressione facciale che sembra gradualmente fare spazio alla commozione.
“Si yo fuera Maradona, viviria como el”, parlare di Diego Armando Maradona nei giorni adiacenti a quello del suo compleanno, attraverso letteratura e discografia che ne riguardano indistintamente il mito o la persona, ci sembra il modo migliore di esaltare il gioco del calcio. Ma siete d’accordo che in questo senso anche la partita di Firenze, dal marchio del tutto sudamericano con Gerson che segna e Alisson che chiude la porta all’insistenza della Fiorentina di rispondere nuovamente prima che la Roma la annulli completamente nel secondo tempo, ci abbia offerto il suo più che discreto contributo?