Londra nun fa’ la stupida stasera. E facci tornare a Roma con un piano, un progetto, una speranza, una luce in fondo al tunnel. La capitale inglese ci accoglie senza l’intenzione di sfatare alcuno stereotipo: freddo, pioggia, nebbia e grigiore diffuso sin dalle scale che dall’aereo portano alla città di sua maestà Elisabetta per alcuni, di sua maestà il football per molti altri. La foschia mattutina è tanta che sul treno che porta da Stansted alla stazione di Liverpool Street l’arco di Wembley non si vede. Si vedono, però, tanti verdi campi di calcio popolati da anatre e, in profondità dietro le case di Tottenham Hale, le gru che costruiscono il nuovo White Hart Lane. Sono almeno otto e sembrano dire: «Sì, qua le cose le facciamo in fretta». È meglio non azzardare paragoni e continuare a guardare i rettangoli verdi che scorrono. James Pallotta è il primo relatore. È atteso alle 9.15 alla British Academy of Film and Television Arts, a due passi da Piccadilly Circus. L’evento si chiama “Leaders meet: Innovation”: dalla prima mattina all’ora di pranzo si alterneranno relatori del mondo dello sport e di grandi multinazionali cercando di spiegare il rapporto tra sport e tecnologia. A James Pallotta seguirà Steve Pagliuca: no, non siamo in un film con Joe Pesci, lui è il co-owner dei Boston Celtics, che la sera saranno impegnati contro i Philadelphia 76ers all’O2 Arena di Greenwich nell’unica partita europea della regular season di Nba. Un evento atteso per un anno intero dagli appassionati della palla a spicchi di tutta Europa.
L’intervento del patron, pardon, dell’owner dell’AS Roma è intitolato “The New Coliseum” ed è ovviamente incentrato sul futuro stadio di Tor di Valle e sulle prospettive di crescita della società, basate anche sulla colonizzazione di mercati esteri. «Non si può essere un marchio globale senza lo stadio di proprietà. Nel mondo ci sono circa 3 miliardi di tifosi di calcio. Vogliamo che l’1% scelgano di seguire la Roma come seconda squadra: se questo 1%, che sarebbero circa 30 milioni di supporters, spendesse per le cose che noi facciamo anche solo 5 dollari vorrebbe dire che i ricavi sarebbero pari a 150 milioni di dollari». Pallotta viene dall’altro lato del mondo e lo ammette: «Fino a 5 anni fa pensavo che il calcio fosse un gioco orribile, non riuscivo a capirlo. Ma ora sono fuori di testa per il calcio». Non si risparmia nemmeno una gradevole battuta sui laziali: «Tutti a Roma vogliono questo stadio tranne forse i tifosi della Lazio, ma potranno giocarci una volta a stagione!». L’intervento prosegue focalizzandosi sul vero e proprio tema dell’incontro: l’innovazione. Ed eccolo dissertare di tecnologia plug-and-play (what’s that?) e di realtà virtuale (questa la sappiamo: andate a La Magica Land per provarla).
Nel novero delle meraviglie tecnologiche di cui disporrà il nuovo stadio, però, ecco spuntare un qualcosa che stona. O meglio, che non stonerebbe più di tanto, se fosse presentato senza enfasi come un normale “stare al passo coi tempi” e non con l’entusiasmo di uno splendido comfort a disposizione dei tifosi. E invece il riconoscimento facciale per chi entra allo stadio, con catalogazione dei volti e tutto quel che ne consegue in termini di privacy e di punizioni sin troppo facili (davvero è giusto punire chi accende un fumogeno?) finisce per essere materiale da sottoporre in pompa magna ai nerd in camicia a quadri che popolano la sala. «Stiamo dedicando molto tempo a decidere che tipo di misure di sicurezza ci saranno, che tipo di riconoscimento facciale useremo. Da qui a tre anni, le cose saranno diverse rispetto ad oggi». Come se le videocamere in alta definizione e il biglietto nominativo non bastassero a garantire la responsabilità individuale di chi compie atti illeciti allo stadio. La riflessione è accompagnata da un retroscena: «Circa un anno e mezzo fa siamo andati dalla polizia, mi sono seduto ad un tavolo con il capitano e gli ho chiesto “Perché non arrestate queste persone?”. Lui mi ha risposto “Permettimi di farti vedere perché”, e mi ha aperto questo quaderno pieno di persone che avevano commesso qualcosa, ma c’erano soltanto immagini sfocate. Quindi abbiamo chiesto se potevamo portare telecamere ad alta definizione all’interno dell’Olimpico, e le abbiamo comprate noi, anche se non siamo i proprietari dello stadio, per iniziare a vedere chi è che crea problemi». Sarebbe curioso andare a fare il computo di quante persone nell’ultimo anno e mezzo siano state video-riconosciute e punite per “reati da stadio” e quante invece per essersi sedute su un posto diverso da quello segnato dal biglietto, per essere salite sulla balaustra per lanciare cori o per aver esposto uno striscione in favore di De Rossi, tanto per fare qualche esempio concreto. La “svista” di Pallotta è accompagnata da un banale e triste stereotipo: «Chi ha mai assistito ad una partita in Italia? Sapete com’è un derby tra Roma e Lazio? Nel Nord Italia non litigano molto, non è così, ma al Sud… come Napoli, Roma… I problemi di sicurezza sono significativi». Questa suona proprio nuova; d’altronde a San Siro non sono mai volati motorini.
Where is James Pallotta? «Jim è molto stanco, è venuto direttamente dall’aeroporto, quindi è andato via subito», dice un membro dello staff dell’evento. Dov’è andato Jim? Questo, più o meno, rimarrà il leitmotiv della giornata dalla fine dell’intervento di Pallotta in poi. Che però non rimarrà senza risposta. La soluzione sembra semplice: sarà agli uffici della Roma a Londra. Scovarli è abbastanza difficile se non si conosce l’indirizzo, ma non impossibile per chi smanetta su internet. La zona, racconta chi lavora nella finanza a Londra, è quella dove si concentrano i fondi di investimento. Come è il Raptor Group, quello di Pallotta. La sede non ha l’apparenza di una sede: è un palazzetto nero a tre piani che quasi stona rispetto agli edifici pomposi che lo circondano e alle Rolls Royce guidate da uomini in turbante che gli passano davanti. Eppure il citofono non lo nasconde: “AS Roma“. Dentro gli uffici non ci sono grandi movimenti. Un tipo che parla inglese prima si chiede che cosa ci faccia qualcuno alla porta e poi si incuriosisce davanti a una copia del Romanista. Il colloquio finisce con un “Forza Roma”. Si avvista anche Kaitlyn Colligan, riferimento londinese di Pallotta, dipendente della Raptor col compito di promuovere il brand all’estero. Ma di Jim, Ramón e Mauro nemmeno l’ombra. Dove si sta progettando il futuro della Roma? Poi, la svolta. Una dritta: The Arts Club. Un club nel vero senso della parola, con omoni dal cilindro all’ingresso che ti parcheggiano la macchina. Eccolo Jim, che arriva a piedi e da solo. Ma che è venuto in metro? Quando vede qualcuno chiedergli «Mr Pallotta, che mercato farà la Roma?» il suo «No comment» è tra lo stupito e il divertito. Ma come m’hanno trovato? Dopo due ore di freddo ad attenderlo (avrà parlato con qualcuno dei tanti individui dal turbante per questioni di sponsor?) la conferma di quanto sembrava: se ne va, accompagnato da Kaitlyn Colligan e Alex Zecca, verso la fermata metro di Green Park. L’allegro terzetto si mischia con la gente comune nel tube di Londra direzione Greenwich, O2 Arena,
Nba, Boston-Philadelphia. Uno spaccato di America in Europa. Una folla immensa di persone riempie bar e hot-doggari di ogni tipo, vestita di tutto punto con i colori delle due franchigie americane e indossando le immancabili “manone” dall’indice puntato. C’è una fila chilometrica per strapagare i gadget di Oltreoceano e per partecipare a giochi da fiera di paese in chiave iper-tecnologica. Molti di loro hanno pagato centinaia di euro per un biglietto, alcuni anche migliaia. I pub che circondavano il fu Boleyn Ground, con i tappeti puzzolenti di birra e sudore e “I’m forever blowing bubbles” che aleggia nell’aria, sembrano lontanissimi e invece sono poco più a nord oltre il fiume. La città del football si inchina all’Nba per una notte. Come diventeremo? Che sia un visore di realtà aumentata o una telecamera per il video-scan facciale, cambieremo. Chissà come.