Che Carlo Ancelotti sia rimasto affezionato alla Roma non è un mistero. Lo ha sempre dichiarato, non ha mai nascosto di ambire un giorno a sedere sulla panchina giallorossa. Anche sul libro “Il mio albero di Natale” del 2013 e edito da Rizzoli, a cura di Giorgio Ciaschini (suo storico collaboratore), cita la Roma in vari passaggi e svela qualche segreto del proprio mestiere. Nella sezione “curriculum vitae”, oltre a elencare le conquiste in carriera e le esperienze vissute, sottolinea che “con l’AS Roma è stato anche il capitano” e ha vinto: 1 scudetto (1983), 4 Coppe Italia (1980, 1981, 1984, 1986). Ancelotti – l’attuale manager del Napoli – è stato un giocatore importante nella storia capitolina. Non è un’opinione, i numeri lo evidenziano: 227 presenze complessive e 17 reti segnate.
È nella Hall of Fame del club, eletto dai tifosi romanisti tra i migliori giocatori di sempre dal 1927. Lui fa parte della classe 2014, entrò nell’elite insieme a Alcides Ghiggia, Vincent Candela e Rudi Voeller. È sempre stato legato alla squadra che gli fece vincere il primo tricolore della carriera (1983), dimostrò questo attaccamento anche in occasione della festa degli ottant’anni della Roma nel 2007, presentandosi all’Olimpico insieme ad altre vecchie glorie. Lo fece da allenatore del Milan in carica, senza alcuna preclusione. Dimostrò meno empatia qualche anno prima, il 17 dicembre 2002, Milan-Roma 1-0: lui, da allenatore rossonero, nemmeno davanti all’evidenza della tv, riuscì ad ammettere che il gol di Inzaghi era viziato da un solare fallo di mano, non ravvisato da Collina. Storie passate, incidenti di percorso. Meglio il calcio giocato.
PASSIONE SENZA TEMPO Nel volume sopra menzionato, Ancelotti racconta della sua professione “in continuo cambiamento”. Partendo da un assunto di Nils Liedholm, “il mio primo maestro, che diceva: “Il tecnico di calcio è il più bel mestiere del mondo, peccato che ci siano le partite”. Carlo ammette di aver pensato di smettere di allenare molto presto: “Al termine della stagione 1995-1996, dopo aver riportato la Reggiana in Serie A, avevo deciso: “Troppo stress. Tre anni e smetto. Quattro, dai, arriviamo al 2000. Cifra tonda. Mi piacciono le cifre tonde. I miei collaboratori, conoscendo il mio amore per il calcio, mi prendevano in giro per quel proposito, ma io, appena uscito, da una stagione vincente sì, ma ricca di difficoltà e nella quale avevo vissuto concretamente il rischio dell’esonero, ero serissimo. Sapete bene che poi le cose sono andate così e il motivo è uno solo: allenare mi divertiva allora e mi diverte ancora oggi. Quello che faccio mi piace troppo, mi dà emozioni continue, mi fa sentire vivo in una passione e con un entusiasmo che conservo intatti come fosse il primo giorno”.
DA ALLENATORE A COACH Entra nello specifico sottolineando soprattutto l’evoluzione della specie. Da allenatore a coach: “Quello dell’allenatore è un mondo in continua evoluzione. Un cammino in cui il modo di giocare, le metodologie e le persone si modificano costantemente e arricchiscono il bagaglio di conoscenze già acquisite. Per esempio: a metà degli Anni Novanta, quando ho cominciato la mia carriera come primo allenatore della Reggiana e poi al Parma, il lavoro si svolgeva quasi esclusivamente sul campo. (…) Un cambiamento rilevante avvenne al mio secondo anno al Milan, quando mi fu data la possibilità di avere a disposizione l’ormai celebre Milan Lab, una struttura in grado di monitorare, durante l’allenamento, anche il carico fisico delle esercitazioni di carattere tecnico-tattico.
Da quel momento mutò il mio modo di gestire il lavoro. (…) Fino ad allora ero abbastanza accentratore, ora non potevo più permettermelo: nacque la necessità di avvalersi di nuove figure e di creare una sintonia di lavoro tra competenze diverse, in altre parole di avere uno staff allargato dove ai tradizionali allenatore in seconda, preparatore dei portieri e preparatore fisico si affiancarono nuovi professionisti. (…) Questo cambiamento in continua evoluzione ha reso l’immagine dell’allenatore più identificabile in quella di coach, ovvero una figura che esercita prevalentemente un ruolo di controllo, di supervisione su quanto viene svolto da altre preferenze professionali. (…) Di conseguenza, il mio impegno diretto sul campo negli anni si è ridotto, mentre è diventato totale il coinvolgimento su molte altre situazioni”.
LA BASE: IL PALLONE Arrivando al merito tecnico, parte dalla base di tutto: il pallone. “Oggi la quasi totalità delle attività sul campo avviene con l’utilizzo della palla, cosa resa possibile dall’accresciuta possibilità di valutare il carico effettivo di ogni esercitazione, sia essa fisica o tecnico-tattica. Considerata la tipologia di prestazione che il calciatore esegue, diviene fondamentale poter perseguire il suo miglioramento fisico totale con l’utilizzo di mezzi che richiamino esattamente quello che fa in campo (…)”.
A proposito della parte tattica, scrive dell’importanza dell’applicazione costante e continua sul terreno di gioco, “in stile Sacchi”: “Per rendere efficace un sistema di gioco è indispensabile passare molto tempo sul campo, perché il giocatore deve sapere esattamente quello che dovrà fare nelle varie situazioni di gara. Questo obiettivo si può raggiungere solo con un lavoro pratico che permetta di provare e riprovare situazioni più vicine possibili alla realtà (…). Come si sa, i risultati importanti si ottengono con grandi giocatori, ma solamente se questi riescono poi a diventare una grande squadra. (…) Dare a una squadra una sua identità precisa vuol dire darle la capacità di ritrovarsi, soprattutto nei momenti di difficoltà”.
LA COMUNICAZIONE Altro aspetto fondamentale, la comunicazione con i calciatori: “La creazione di un gruppo forte e coeso dipende anche e soprattutto dalla relazione che il tecnico riesce a stabilire con i suoi atleti e tra i calciatori stessi. (…) In generale, possiamo dire che il successo di un allenatore passa attraverso il buon rapporto con i propri giocatori. Ecco perché la comunicazione riveste un ruolo tanto importante nella gestione di un gruppo. (…) Una corretta comunicazione migliora la relazione sia a livello individuale sia di gruppo, favorendo una migliore prestazione (…) Ritengo importante che l’allenatore, pur non regolarmente, frequenti lo spogliatoio. È questo il luogo in cui si può creare un momento di comunicazione orizzontale, in altre parole a pari livello, con i calciatori”.
I COMPITI NEL SISTEMA DI GIOCO
Il sistema di gioco non è solo una disposizione di calciatori in campo: “Io aggiungo soprattutto in fase difensiva, ma penso che in pochissimi vi diranno quanto siano di fondamentale importanza i compiti che vengono assegnati. (…) I compiti assegnati determinano lo sviluppo del sistema stesso. (…) Preso atto del’importanza dei compiti assegnati per lo sviluppo del sistema di gioco, l’allenatore sa bene che questi, in gran parte, sono legati alle caratteristiche dei giocatori (…) L’allenatore vede l’insieme, rende osmotiche le qualità dei singoli e compone la squadra (…)”. Nei momenti di difficoltà di una squadra, Ancelotti indica la via da perseguire, citando la parentesi alla Reggiana: “(…) In certi momenti consiglio di armarsi di calma e pazienza, insieme ad autorevolezza e determinazione, e perseguire il proprio progetto. Certamente ci vuole anche un pizzico di fortuna che possa determinare il cambio di marcia, ma abbiate fiducia: il momento difficile presto finisce e alla Reggiana fu così. Dalla partita in casa con il Verona, cominciammo a vincere e non ci fermammo più, raggiungendo la promozione in Serie A (…)”.
DIFENDERE Secondo Ancelotti, il sistema di gioco conta soprattutto per la disposizione della difesa. A tre o a quattro. L’aspetto difensivo della squadra è importante, con alcune specifiche doverose: “Difendere non vuol dire schierare un maggior numero di difensori, bensì fare in modo che tutta la squadra curi la fase, dando una serie di compiti individuali che si traducono in un atteggiamento collettivo mirato. (…) L’obiettivo è anche limitare le qualità dell’avversario, ma sempre nel limite di una totale conservazione di quelle che sono le nostre peculiarità. Snaturare la propria squadra e il proprio gioco potrebbe tradursi in una perdita d’identità che peggiora il rendimento dei singoli e del collettivo”.
È questo, Carlo Ancelotti ai raggi X. Ancelottix.