“Ci sono tante onde da distinguere, nello spettro tra il rosso e il blu”, come cantano I Cani nella loro Calabi-Yau. I testi dei gruppi musicali che hai conosciuto grazie a situazioni di cui la tua persona ancora non riesce ad accantonare del tutto l’irrisolutezza che le procurano (ma di cui, quantomeno, accetta quello che le circostanze stabiliscono) acquistano spesso un peso specifico più alto. E per uno strano scherzo cromatico del calendario, fanno risuonare quei due colori che stanno uno accanto all’altro sulla maglia degli avversari di turno. Negli stessi giorni in cui, esattamente un anno fa, ascoltavi le stesse parole alimentando le sfere più sensibili della tua immaginazione.
Le nozioni di geometria differenziale non sono proprio materia di tutti i giorni. E, credetemi, non siamo certo noi i più adatti a farne anche solo piccoli accenni. Quello più alla nostra portata sembra essere lo spaziotempo. Che, secondo la fisica teorica, combinato con una variabile di Calabi-Yau modellerebbe la geometria dell’universo secondo una struttura quadridimensionale. Formata appunto da spazio (lunghezza, larghezza, profondità) e tempo. Ma non solo.
Si sta tentando di conciliare meccanica quantistica e relatività generale per costituire una teoria del tutto. Ovvero un principio che sia in grado di spiegare ogni fenomeno fisico attualmente conosciuto. Capite che diventa pleonastico continuare su questa linea. E’ qui che dobbiamo riconoscere che il calcio sia un argomento notevolmente più alla nostra portata. Senza con questo dover far finta di non sentirci in colpa.
Però andare tra le pieghe di quanto successo a metà del secondo tempo di questo Genoa-Roma non è proprio l’emblema della semplificazione. E, soprattutto, non è necessariamente un qualcosa che abbia a che fare solo con il calcio. Anzi: con il calcio non c’entra molto. Lo spazio è quel poco che ti lascia una stretta marcatura a uomo, il tempo è conteggiabile nei pochi attimi in cui si compie un contatto clandestino. Cercato. Scorretto.
Dovendo per forza di cose staccare dalle strette leggi della scienza applicata alla natura, perché la forma musicale è l’espressione esattamente contraria dei rigorosi algoritmi numerici, questa canzone sembra più che altro segnalare quanto di dissonante ci possa essere nell’autovalutazione di sé stessi. Quasi la rinuncia a farlo, “io non voglio più guardare dentro di me”. Perché comunque cambiare risulta spesso un’ambizione di cui l’essere umano non è né troppo consapevole e nemmeno troppo convinto.
“Miliardi di mondi esistono ancora, miliardi di vite per provare ancora”, le seconde possibilità si ripresentano terze, quarte, quinte, seste e settime. Perchè lo fanno a ogni prima opportunità possibile. Daniele De Rossi ne avrà in ogni partita. Ne ha avute in ogni partita. Ma non sempre ha dimostrato di esserci passato sopra. Pesa, tutto. Pesano questi 2 punti persi perché non ci si spiega come il Genoa avrebbe potuto pareggiare se non così. Pesa la sciocchezza priva di ogni motivo ponderabile. Pesa il goffo tentativo di giustificazione secondo cui la colpa sarebbe da attribuire a Lapadula e al suo atteggiamento troppo arrendevole.
Tutto questo stride con la lucidità che dimostra davanti ai microfoni, con il suo essere il rappresentante calcistico di gran lunga più interessante d’Italia a livello argomentativo. Con l’uomo che ci hanno raccontato essersi scusato personalmente con gli svedesi per l’accoglienza che il nostro paese ha riservato al loro inno nazionale (e di conseguenza a loro) soltanto pochi giorni fa. Perché “ci sono molte ragioni di perplessità, negli spazi di Calabi-Yau”, perché ogni individuo va messo sullo stesso piano di un universo, con la difficoltà evidente di raggiungere la spiegazione di ogni suo singolo angolo.
Niccolò Contessa è un romano atipico in quanto per niente interessato al calcio. Che anzi sostiene che l’unico ad averlo in qualche modo interessato è Zdenek Zeman. Motivo: è amante del bel gioco più che del risultato. Senza prescindere dalle origine foggiane della sua famiglia, che inevitabilmente riportano a quando da quelle parti c’era Zemanlandia. In compenso fa musica in maniera straordinaria, che sia con I Cani o come produttore di altre realtà emergenti. Daniele De Rossi invece è un romano molto più stereotipato. Innamorato della sua squadra del cuore, tanto che a volte tutto quel sentimento (come ogni tipo di sentimento) prende il sopravvento indipendentemente dalla tua volontà.
I figli di Roma non indossano questa maglia. Per il semplice fatto che non esiste l’atto opposto, quello con cui la tolgono e tornano ad essere normali dipendenti del calcio. Non la tolgono perché fa parte di loro. Come fa parte di noi. Per questo diventa ancora più amara l’impossibilità di giustificarne il gesto.
“Ci sono molti misteri da risolvere nelle leggi del pezzo di universo che osserviamo”, e nel pezzo di universo che osserviamo a occhio nudo una città come Genova brilla di luce propria. Perché se pure un livornese si consegna a quella che indipendentemente dalla sua volontà diventò la sua città d’adozione (vi si trasferì a 10 anni perché il padre venne assunto da un’azienda conserviera che aveva sede a Palazzo Doria), evidentemente il suo fascino è avvolgente. Ma non a tutti fa lo stesso effetto. Il livornese è il poeta Giorgio Caproni, che nella sua composizione intitolata Sirena definisce Genova come “la mia città dagli amori in salita”. C’è un modo migliore per descrivere cosa voglia dire essere romanista?