1968, cinquant’anni fa. A Milano, in Curva Sud, sulla rampa 18, compare uno striscione: “Fossa dei Leoni”. E’ il primo gruppo ultras italiano. Spesso si sente usare, come sinonimo di “ultras”, la locuzione “tifo organizzato”, ma è un errore. Il tifo italiano è sempre stato organizzato. I “Fedelissimi granata” preparavano e coordinavano il tifo in curva Maratona a Torino da molto prima del 1968, ma non erano ultras. E nemmeno la violenza può essere considerata un aspetto dirimente: il tifo italiano è sempre stato violento, fin dagli albori (genoani e bolognesi si spararono addosso in stazione a Torino nel 1925), perché nel tifo calcistico abbiamo sempre riversato il nostro campanilismo viscerale e feroce, e le faide cittadine.
Quella che prima del 1968 non è mai entrata negli stadi è la dimensione antagonista del tifo, che emerge proprio quando allo stadio cominciano a manifestarsi, “quelli” dell’antagonismo sociale e politico, che identificano nelle curve un perfetto spazio di libertà, da conquistare e da difendere, traslando dalle piazze agli stadi i gesti, i cori, i nomi, la ritualità.
Alla Fossa dei Leoni, seguono gruppi in tutte le principali città del nord Italia: nel 1969 a Genova nascono i sampdoriani Ultras Tito Cucchiaroni, i primi a usare il nome “ultras” (che deriva dal francese ultraroyaliste) e gli Ultras Granata a Torino.
Nello stesso anno, sull’altra sponda di Milano, nascono i Boys S.A.N. (Squadre d’Azione Nerazzurre), i primi, e per un po’ di tempo gli unici, dichiaratamente schierati a destra. Nel 1971 vengono fondate a Verona le Brigate Gialloblù. L’anno successivo il fenomeno raggiunge le metropoli del Centrosud, con il Commando Ultrà a Napoli, Boys e Fedayn a Roma. Chiudono nel 1973 l’elenco dei principali gruppi fondatori la genoana Fossa dei Grifoni, e gli ultras fiorentini, che prendono il nome di Superstar Supporters.
Le fotografie delle curve a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta mostrano in modo evidente il “cambio di scena” rispetto a quello che era stato il mondo dello stadio fino ad allora. Ma è lo stesso cambiamento che è in corso nel paese: c’è un alone di morte, nella coreografia delle curve: tantissime le “brigate”, tanto per rimarcare una provenienza, o peggio una prospettiva. Nell’iconografia delle curve dei primi anni Settanta abbondano i teschi sulle bandiere e sugli striscioni, i cori cattivi, le croci e le bare in curva. Altri nomi di quegli anni, tanto per dare il couleur du temps: Commandos, Fighters, Collettivo Autonomo Viola. La situazione, come sempre e come ovvio, incrudelisce parallelamente a quella del paese, ma proprio perché il paese ha ben altro a cui pensare, quello che succede negli stadi non suscita particolari preoccupazioni.
Le cose cambiano il 28 ottobre del 1979: all’Olimpico di Roma Vincenzo Paparelli, laziale, sta mangiando un panino in Curva Nord prima del derby, quando viene colpito al volto da un razzo lanciato dalla curva romanissta, e muore. E’ un momento di svolta, che muta il contesto, la percezione degli ultras da parte dell’opinione pubblica. Ma da quel pomeriggio ha anche inizio nel mondo ultras un cambiamento che diverrà con gli anni sempre più radicale: in due parole, tutto incattivisce. I gruppi “storici” man mano si esauriscono, subentrano ragazzi nuovi e più giovani, con meno vincoli di gruppo, più attratti dalla dimensione estetizzante e violenta che dall’esperienza collettiva. Gente che vive la curva più come una vetrina individuale che come uno spazio collettivo liberato e libero dalle regole imposte dalla società. Gli ultras, insomma, diventano meno compatti e molto più pericolosi. Si moltiplicano gli striscioni, i gruppi e gruppetti, fanno la loro comparsa nuovi cori, nuove sigle, nuovi nomi. L’eredità politica “di sinistra” si perde in molte curve; a volte, come a Verona, sostituita da una nuova identità “di destra”. Questo periodo, quello che inizia con la morte di Paparelli, e dura per circa quindici anni, è il più violento di questo mezzo secolo: ci sono scontri tutte le domeniche, ci sono feriti tutte le domeniche. Quelle del 1990-’91 e 1991-’92 sono in assoluto le stagioni che fanno registrare il più alto numero di incidenti, e il più alto numero di accoltellati.
Il 29 gennaio del 1995 è di nuovo una tragedia a scandire il tempo. Vincenzo Spagnolo, genoano, muore accoltellato prima di un Genoa-Milan da un ultras milanista, appartenente a un gruppo “laterale”, le Brigate II, che erano andate a caricare sotto la curva “nemica”. Alla notizia della morte di Spagnolo viene sospesa la partita. Poi, lunghe ore di scontri tra forze dell’ordine e tifosi genoani, che vogliono vendetta. E’ un episodio cruciale, sia perché ormai la copertura televisiva del calcio è totale, e le scene della guerriglia vanno in diretta in tutte le case italiane, sia perché nella morte di Spagnolo confluiscono tutti i processi di deterioramento del mondo ultras che si erano avviati negli anni Ottanta: i gruppi storici sciolti o sempre più frastagliati al loro interno, i gemellaggi rotti, la ricerca ossessiva dello scontro e del “gesto”, la mistica delle lame. La morte di Spagnolo è diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta, e seguita, perché è una “morte ultras” dall’inizio alla fine. Non ci sono stadi fatiscenti, non ci sono poliziotti e manganelli, non ci sono razzi. Andare in modo scoperto sotto la curva avversaria, come hanno fatto le Brigate II, è sempre stato ritenuto, come un gesto coraggioso, un “numero” da raccontare, la cui eco normalmente rimbalza da una curva all’altra in tutta Italia. Ma a volte, come quella domenica, finisce male.
Con la morte di Spagnolo si apre una stagione nuova: quella dello scontro aperto tra ultras e forze dell’ordine. Data la natura antagonista del movimento, è ovvio che il rapporto degli ultras con le istituzioni e con il loro braccio armato, ossia Polizia e Carabinieri, non sia mai stato buono, ma dal 1995, con la militarizzazione degli stadi, le leggi speciali, l’uso indiscriminato delle diffide, in sintesi con la messa in atto della politica “colpirne cento per educarne uno”, le forze dell’ordine sempre più spesso diventano il “primo nemico” degli ultras, al punto da meritarsi un nome di battaglia, “i blu”, come se fossero un gruppo rivale.
Inizia così un decennio abbondante che – passando anche per Genova 2001 – vedrà esacerbarsi la tensione tra le forze dell’ordine e una parte non irrilevante del mondo giovanile italiano, che include ovviamente tutti gli ultras. Una tensione che si fa domenica dopo domenica sempre più alta, e non sempre per colpa degli ultras, perché troppe volte in questi anni lo scontro sembra davvero tra gruppi rivali.
Un primo campanello d’allarme suona, molto forte, il 21 marzo del 2004, quando il derby romano che doveva giocarsi quella sera, passato alla storia come “il derby del bambino morto”, viene sospeso perché, dopo ore di scontri durissimi tra ultras della Roma e forze dell’ordine fuori dalla Curva Sud, avvolta dal fumo dei lacrimogeni, si sparge la voce che è morto un bambino. Non è vero, ma tutti ci credono. Non serve a niente che il prefetto Serra e il questore Cavaliere facciano leggere allo speaker dello stadio una comunicazione in cui si dice che non c’è alcun bambino morto. Quasi tutto l’Olimpico continua a cantare “sospendete la partita” e “celerini assassini”. E’ la manifestazione plastica di un clima pessimo, e di una situazione fuori controllo. Le istituzioni continuano a parlare a vuoto di “tolleranza zero”, e non riescono a trovare altri modi per controllare l’ordine pubblico negli stadi che non siano diffide a casaccio e cariche e lacrimogeni, prassi che non ha altro effetto se non quello di esasperare ulteriormente gli animi di tutti.
Tre anni dopo, il 27 gennaio 2007, durante Catania-Palermo, gli scontri feroci tra ultras catanesi e polizia provocano la morte dell’ispettore Filippo Raciti. Tra gli ultras, la morte di Raciti fa discutere, divide: ci sono quelli che cercano di salvare il salvabile e di calmare un po’ le acque; e ci sono quelli che invece considerano la morte di Raciti come una cosa che ci sta, che poteva capitare, e se proprio doveva capitare, meglio a voi che a noi. Chi la fa l’aspetti. Polizia primo nemico. Catania uno di meno. Vendicato Carlo Giuliani. Queste le scritte sui muri d’Italia, per ricordare qual era il clima. I provvedimenti che vengono presi subito dopo la morte di Raciti, riassumibili nella formula “è vietato tutto”, tengono per un po’ il fuoco sotto la cenere, ma l’incendio divampa di nuovo, sempre nel 2007, l’11 novembre, quando un poliziotto spara contro una macchina che dopo una rissa si sta allontanando da un autogrill sull’Autostrada del Sole, e uccide un ragazzo di ventotto anni, un ultras della Lazio, Gabriele Sandri. Segue una giornata di rivolta in diverse città italiane, e soprattutto a Roma, dove gli ultras assaltano caserme e commissariati, inseguono automezzi di polizia e carabinieri, chiudono strade, rubano e distruggono le insegne e i vessilli delle forze dell’ordine, devastano la sede del CONI. Ovunque, nella zona intorno allo stadio Olimpico, violenze, feriti, devastazioni.
Il 2007 segna l’ultima, per il momento, svolta nella storia degli ultras italiani. Ormai tutti hanno capito che la situazione degli impianti non permette una seria politica di prevenzione e repressione della violenza negli stadi, ma siccome quasi dappertutto non ci sono né la volontà né i soldi per intervenire, si procede con la politica della pura repressione, delle curve chiuse, delle diffide, dei divieti, delle tessere: la violenza diminuisce, certo, ma più per sfinimento che per altro. Gli stadi si svuotano, si spengono. “Hanno fatto un deserto, e l’hanno chiamato pace”. Infatti, quando bisogna gestire l’ordine pubblico davvero, come per la finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, il 3 maggio 2014, non ci si riesce, e si permette ai napoletani di girare indisturbati per Roma, di cercare lo scontro coi romanisti, e di trovarlo. Muore un altro ragazzo, Ciro Esposito, e il calcio italiano vive l’ennesima serata drammatica e avvilente.
Negli ultimi due, tre anni, però, anche se con molto ottimismo della volontà, si è vista un po’ di luce. Gli stadi (solo quelli di serie A, ma è meglio che niente) stanno tornando piano piano a riempirsi, e le curve nonostante tutto continuano a essere un luogo di aggregazione “libero e vero”, uno dei pochi. Il mondo ultras, insomma, anche dopo mezzo secolo, proprio non riesce a esaurirsi, e sembra a volte persino manifestarsi una consapevolezza nuova, che porta se non a escludere quanto meno a limitare dall’interno la violenza. Certo, la tecnologia e le telecamere e la conseguente “certezza della pena” sono un efficace deterrente. Ma è bello pensare che non sia solo questo; è bello pensare che chi va in curva abbia capito, dopo tutto questo tempo, che il senso non è la “fatalità necessaria” dello scontro, e che il valore da difendere è la curva in sé. E chi non l’ha mai vissuta, una curva, peggio per lui. Perché di una cosa sola, dopo cinquant’anni, possiamo essere sicuri: oggi, come allora, gli altri, se non ci fossero gli ultras, “farebbero tutti silenzio”.