Dicevano anche che fosse spallettiano, perché con Luciano ha lavorato come team manager nella Roma non appena ha smesso di giocare e perché in certi meccanismi del suo Sassuolo si intravedevano le linee tracciate dal tecnico oggi all’Inter. Poi però, sul finire della scorsa stagione, si è creata una frattura a causa di un’innocente e quasi banale dichiarazione di Di Francesco: «Mi piacerebbe allenare la Roma, sono legato a quella squadra». Spalletti non l’ha presa bene: «C’è gente che si propone per prendere il mio posto sulla panchina giallorossa, compreso lui». Un carattere forte contro uno solo apparentemente debole: lo screzio non è degenerato, ma non si è mai davvero sanato e anche quest’anno dopo Roma-Inter ha avuto un’appendice. Nel frattempo Di Francesco ha ridisegnato la squadra giallorossa secondo le proprie convinzioni, allontanando dalla porta Nainggolan che Spalletti si era inventato trequartista: ora il belga segna meno, però in mezzo spadroneggia. Né zemaniano, né spallettiano: «Sono difranceschiano, io». Crede in se stesso, Eusebio, e ha sempre tenuto a ribadirlo.
Fin da quando è arrivato a Roma, accompagnato dalle perplessità feroci di buona parte del popolo giallorosso: è un allenatore da provinciale, non da grande piazza. Non se l’è presa più di tanto. E ha scelto una via comunicativa opposta — anche questa — rispetto a Spalletti: non è andato allo scontro con il variegato mondo romanista, non ha usato massime e strani giri di parole; ha raccontato in modo diretto ambizioni e problemi, a cominciare da quelli clamorosi legati agli infortuni che sono tantissimi. «Non credo alla casualità, voglio vederci chiaro». E pazienza se una parte dello staff l’ha imposta dai tempi di Garcia il presidente Pallotta. Contro il Chelsea, l’abruzzese Eusebio ha fatto innamorare l’Europa. Quasi una laurea. Se l’è conquistata con una difesa imperforabile, non in stile Zeman, e con Nainggolan mezzala, non in stile Spalletti. Perché è difranceschiano, lui.