Quanti di voi il lunedì sera si addormentano guardando Tiki Taka, e vengono svegliati il martedì mattina dalla tv ancora accesa che trasmette la sigla de I Puffi. Quanti. Una delle tante sigle de I Puffi, per essere precisi I Puffi sanno. Che è anche il 60° singolo di Cristina D’Avena, uscito nel 1989, in appena 8 anni di carriera. Ma è un lampo che dura lo spazio di una notte.
Qualcuno di voi l’avrà fatto anche due settimane fa. La sera dopo, magari, avrà seguito lo spoglio dei voti per le elezioni presidenziali in USA. Diversi canali televisivi se ne sono occupati. Io l’ho fatto su La7, con la cosiddetta “Maratona Mentana”, ma è stata semplicemente una scelta anticonformista che non derivava da grossi motivi. Svegliato la mattina seguente dallo stesso Enrico Mentana che diceva di un vantaggio importante, ma a sorpresa a favore di Donald Trump.
Che è coetaneo di Cherylin Sarkisian. La quale, peraltro, non si è detta felicissima della sua elezione. Nativa della California, figlia di un rifugiato armeno, a 16 anni incontra in un bar di Los Angeles colui che diventerà suo marito e, nello stesso periodo, la sua spalla nel campo della musica. Ha 11 anni più di lei, e lavora per il famosissimo produttore discografico Phil Spektor. Si chiama Salvatore Philip, a conferma delle origini italiane, precisamente siciliane. Anche se rimarrà nella storia della musica mondiale (e della politica statunitense) come Sonny Bono.
Anche lei sceglie il suo nome d’arte, quello con cui la conosciamo tutti, e diventeranno il duo Sonny & Cher. Un sodalizio affettivo e artistico che durerà una decina d’anni, come dicevamo non ci saranno grosse differenze di tempo tra la fine dei due tipi di rapporto. Faranno un solo grandissimo successo, che però basterà a far dimenticare tutti gli altri riusciti a metà: la leggendaria I got you babe, che esce nel luglio 1965.
Phil Connors invece viene svegliato da questa canzone, trasmessa dalla radio alle 6:00 di ogni mattina. Phil Connors è un meteorologo statunitense che è stato mandato a Punxsutawney, in Pennsylvania, per un reportage sul Giorno della Marmotta, una festività che nacque proprio in quella cittadina nel 1887 e che viene celebrata ogni 2 febbraio. Che è uno dei quattro cross-quarter day dell’anno, ovvero i giorni che stanno esattamente a metà tra un equinozio e un solstizio. In breve, si osserva il comportamento di una Marmota Monax al suo risveglio: in base a come si comporterà, si capirà quanto mite o meno sarà il resto dell’inverno.
Per Phil Connors è diverso. Perché a ogni suo risveglio capisce di essere intrappolato in un circolo temporale che gli fa rivivere in continuazione la stessa giornata. Ogni giorno è il Giorno della Marmotta. Gli stessi avvenimenti che si susseguono con ciclicità inesorabile. Da I got you babe trasmessa alla radio in avanti. In fondo è così che ci sentiamo durante la sosta del campionato. Come Bill Murray in Ricomincio da capo (1993, regia di Harold Ramis). Passiamo 12 giorni tutti uguali, senza spunti degni di nota. Corteggiamo la serie A come lui faceva con Andie Mac Dowell. E infatti quella era l’unica cosa che non gli riusciva, mentre aveva imparato a far fruttare a suo favore tutte le piccole e grandi cose che gli succedevano.
Uno sviluppo della trama che ispirò il giovane regista di videoclip Jamie Thraves. Quando, nel 1996, i Blur gli chiesero di dare una degna versione televisiva a una canzone del livello di Charmless man. Si affida all’attore francese Jean-Marc Barr, un po’ come fece qualche anno prima Luc Besson per il suo Le grand bleu. E’ lui il protagonista che, in ogni passo della sua giornata, si trova di fronte la famosa band inglese. O ancora di più alla coppia Max & Dania, che nel 2000 deve aiutare un diciannovenne di Southampton a scalare le classifiche mondiali. Si chiama Craig David, e la sua 7 days sarebbe già un successo. Il videoclip ha la particolarità di essere strutturato in modo che ogni giorno sia lunedì. Anche a Craig David le scene si ripetono in continuazione. Ma qui i giorni sono 12, mica 7.
Max Gazzè nella sua Nel verde sostiene che “l’uomo nasce in natura cordiale, per cui non ha bisogno di essere governato”. Chi sono loro per dirci quando e come il calcio si deve fermare? E’ il secondary ticketing delle nostre emozioni. La rivendita a prezzo maggiorato, parallela e formalmente non autorizzata di quell’evasione settimanale che noi siamo convinti ci spetti di diritto. Almeno in certi periodi dell’anno. Invece per metà settembre no. E per metà ottobre neanche. Per quanto riguarda metà novembre, quindi, non sperare che sia diverso.
Che sia soltanto un po’ di presunzione, o una sorta di scuse anticipate attraverso una compilazione non propriamente casuale del calendario, non credano che mettere il derby di Madrid, o quello di Milano, o Manchester United-Arsenal alla ripresa ci faccia dimenticare di tutto. La Roma prima di qualsiasi cosa, e questo credo sia sottinteso. Ma ogni tipo di campionato è quello in cui ci riconosciamo. Perché poi ti dicono che di calcio ce n’è anche in quei giorni. E forse, quantitativamente parlando, non si sbagliano. Ma qui non se ne sta facendo un discorso di pura misura. Come se vedere greci e faroensi correre appresso a una sfera fosse la soluzione a questo stato di apatia. Qui non c’è in gioco il passatempo. Qui c’è in gioco la passione. Il calcio non è e non dovrà mai essere soltanto l’esercizio meccanico della tecnica e della tattica. Ma tutt’altro.
C’è una sola ancora di salvezza. Anzi, due: Selecao e Albiceleste. Se vogliamo spingerci a parlare di tentativo di eccezione, forse possiamo farlo. Come se giocassero Pelè e Maradona (in rigoroso ordine di apparizione delle rispettive nazionali nel tabellino). Come se il Trattato di Montevideo non fosse mai stato siglato. Come se portoghesi e spagnoli non avessero ancora finito la loro opera di colonizzazione. Secondo il sociologo argentino Pablo Alabarces “i brasiliani amano odiare argentini e gli argentini odiano amare brasiliani”. Ogni Brasile-Argentina è sentito come e più dei precedenti. E’ ovvio che non è la nostra fede, ma quando la posta in palio è alta tendiamo comunque ad accontentarci di disporci dalla parte di qualcuno. Stavolta però sono i dettagli (se a questo vogliamo ridurre il concetto di fuso orario) a mettersi contro. Giocano mentre qui è notte fonda, mentre dimentichiamo nei sogni la nostra attesa spasmodica.
Tanto alla mattina risuona di nuovo I got you babe. Quando scendiamo in ascensore verso una nuova giornata, c’è Damon Albarn che ci canta in faccia. Quando ci scappa di mano il palloncino gonfiabile, che manco quello riusciamo a tenerci stretto, c’è sempre Craig David che ce lo riporta. A lui le cose andranno bene. A Jean-Marc Barr un po’ meno. Bill Murray ci metterà un po’ ma si scoprirà un uomo migliore. Come noi quando Daniele De Rossi e Alejandro Gomez, detto Papu, si scambiano i gagliardetti sul prato dell’Atleti Azzurri d’Italia.
Ci chiediamo se quei due giocheranno mai insieme. Ma è un pensiero vago che lascia subito spazio alla consapevolezza che anche stavolta ce l’abbiamo fatta. E’ stato difficile ma ce l’abbiamo fatta. Peccato che Paredes non sia stato particolarmente accorto nel tentare di convincere Gomez a diventare il nuovo tassello del nostro attacco. E che abbia sbagliato decisamente il luogo, essendo appena dentro l’area di rigore. Ma la vittoria dell’Atalanta era già stata legittimata da un secondo tempo troppo brutto per essere capito. Luciano Spalletti aveva già previsto tutto nella conferenza stampa prepartita: quando c’è equilibrio non ne usciamo mai trionfanti. Ogni volta ci succede così. Come se fosse il nostro Giorno della Marmotta. E se lo fosse sul serio?