Un tunnel a Bruno Conti. Una cosa che neanche ci verrebbe da pensare. Qualcuno invece ci ha pensato. E l’ha fatto. E’ un talentuoso centrocampista, che sta giocando una delle sue prime partite in terra italiana. Un discreto biglietto da visita, forse più del gol all’esordio contro il Genoa in Coppa Italia, e più o meno come il gol a Walter Zenga sul prato di San Siro nella prima di campionato. Non che ne avesse bisogno, di biglietti da visita. Almeno tecnicamente.
Però qui entriamo nel trionfo dell’inutilità. Nell’esaltazione della fuffa calcistica e non. Era il 1987. Umberto Tozzi e Raf avevano cantato Gente di mare per tutta l’estate. Se hai speso quasi l’intera carriera tra Spalato e Marsiglia, e scegli Pescara per rilanciarti, evidentemente con il mare hai un rapporto importante. Può succedere anche a chi è nato sulle rive di un fiume, precisamente il Neretva. Che dà il nome ad una famosa battaglia della Seconda Guerra Mondiale, vinta dai partigiani della Jugoslavia.
A causa dell’altro conflitto, invece, quello che smembrò la Jugoslavia dall’interno, venne distrutto lo Stari Most, il “ponte vecchio” di una città chiamata Mostar. Un bellissimo ponte ottomano, commissionato da Solimano il Magnifico nel 1557 e costruito in una pietra locale chiamata tenelija. Si ergeva sopra il Neretva ed univa la città vecchia a quella nuova. Bistrattato oltre la distruzione, in quanto erroneamente indicato come la linea di divisione tra la parte a maggioranza cattolica e quella a maggioranza musulmana. Fortunatamente venne ricostruito nel 2004 e diventò Patrimonio dell’umanità grazie all’Unesco.
E’ proprio da qui, da Mostar, che comincia tutto. Intanto perché è lì che nasce il nostro protagonista. Poi perché è sempre lì che, nel marzo 1980, ha il primo approccio con il calcio italiano. Qualificazione alle Olimpiadi di Mosca 1980, Jugoslavia-Italia. Finisce 5-2, fa 3 gol e 2 assist. Evidentemente anche l’ex URSS è nel suo destino. Oltre alle Olimpiadi, dove comunque la Jugoslavia arrivò quarta, ultimo tassello del dominio dell’Europa orientale dietro Cecoslovacchia, Germania Est e i padroni di casa. Perché giocare a pallone è affascinante, ma le ginnaste sovietiche probabilmente lo sono anche di più. Quindi tanti saluti all’Hajduk Spalato, dove nel frattempo si era trasferito, e fuga d’amore di un anno. Quando torna, incontra il Torino in Coppa Uefa e tra andata e ritorno fa lo stravede, come si dice da queste parti.
Poi va a giocare in Francia. Mentre a Pescara arriva Giovanni Galeone. Giovane e rivoluzionario, prende una squadra costruita per la serie C (e ripescata in B all’ultimo) e la porta in serie A. Quando si apre il calciomercato, Galeone vuole lui. Di cui, tanto per non essere smentito, a Marsiglia si sono già stufati. Sarebbe la star assoluta se non fosse che contemporaneamente arriva Leo Junior dal Torino. Un campione di fama mondiale, che nella Pescara neopromossa diventa subito capitano (è Gian Piero Gasperini in persona a riconoscerne la grandezza e a cedergli la sua fascia) e conduttore di un programma tv su Telemare dal titolo Brasi… Leo, in cui si parla di calcio e musica.
E siamo al tunnel a Bruno Conti. Peccato che la partita finisca 0-0, e quando si va ai rigori (si gioca per un girone eliminatorio di Coppa Italia) lui se lo faccia parare da Gregori. Perché nella Jugoslavia degli anni ’70, la sua, il risultato era una componente del calcio in tutto e per tutto uguale alle altre. Se non minore. Il numero, la giocata, era quello che la gente voleva. I suoi 8 gol sono fondamentali per la salvezza, raggiunta senza neanche troppi problemi. A questo punto lo rivogliono in Francia. Ma a Lens non c’è il mare. A Mulhouse peggio ancora, anche se 8 gol li fa anche lì. A Rennes non parliamone neanche. C’è soltanto l’incontro tra due fiumi, la Vileine e il suo affluente Ille. Ma sappiamo benissimo che non è per niente la stessa cosa.
E’ forse per quello che a Pescara ci ritorna, nel 1992. Dopo altre tre stagioni prive di grossi successi. La squadra è neopromossa, in panchina c’è sempre Galeone, lui continua a far arrivare specialità culinarie dal suo paese ogni tre settimane. Sembra tutto uguale. Ma ad attenderlo in campo non c’è Leo Junior. C’è un giovane Massimiliano Allegri e andrebbe anche bene. Ma ci sono anche una serie di carneadi del nostro calcio da far impallidire Felice Centofanti e quell’Armata Brancaleone che è il suo Ancona, stessa stagione. Che pure arriverà sopra al Pescara in classifica. Senza però evitare di condividerne la sorte.
Eppure hanno acquistato due stranieri dal Monaco, finalista di Coppa delle Coppe l’anno prima. Il primo è John Sivebaek, fresco vincitore degli Europei di Svezia per caso, terzino destro di quella Danimarca che neanche doveva giocarli. Invece li giocò proprio in sostituzione del nostro protagonista e della Jugoslavia, che purtroppo era alle prese con altri problemi. Sivebaek, tra l’altro, è passato alla storia come autore del primo gol della gestione di Alex Ferguson al Manchester United. Era il novembre 1986, una vittoria di misura sul Q.P.R.. Va bene, ma sono passati sei anni. Carriera gloriosa, ma ormai è in dirittura d’arrivo.
Il secondo è Roger Mendy, difensore centrale che al Principato preferì Montesilvano, dove si stabilì dopo aver speso a Pescara gli ultimi due anni della sua carriera. Pare che ultimamente sia tornato in Senegal e da allora sia diventato un po’ restio a contribuire al mantenimento delle due figlie (una delle quali, Michelle, qualche anno fa è stata anche eletta Miss Mediterraneo). Un deja-vu. Espressione in cui la scelta del francese non è casuale, dato che fece la stessa cosa con altri due virgulti avuti quando giocava a Tolone. Rimane comunque, non che la cosa lo riabiliti, il primo calciatore africano ad aver segnato in serie A.
Nel mercato di riparazione, che all’epoca era a novembre, arriverà anche un terzo straniero. Il livello potenziale, ma solo quello potenziale, non scende. Perché il terzo è uno che neanche due anni dopo alzerà, di fronte ai nostri sguardi, la Coppa del Mondo al cielo di Pasadena. E’ un centrocampista brasiliano, è il capitano della sua nazionale e in quel momento anche della Fiorentina, che però l’ha messo fuori rosa. Si chiama Carlos Caetano Bledon Verri, da tutti conosciuto come Dunga.
Però lui non è più lui. E nelle storie d’amore i ritorni sono spesso difficili. Anche se vivi in completa sincronia con una città e un popolo che non sono i tuoi. Ampie camminate sul lungomare da una parte, una discesa inarrestabile verso la retrocessione in serie B dall’altra. Iniziata però con un successo, peraltro in trasferta. Uno scalpo importante, ottenuto subito, alla prima di campionato. Segna Nobile, uno 0-1 che resterà una premessa che non avrà seguito. Sembra persino superfluo dirvi contro chi vinsero. Roba già vista, nell’Olimpico colorato di giallorosso.
Perché quella di quest’anno è la terza volta consecutiva che il Pescara viene promosso nel massimo campionato, per poi arrivare ultimo e retrocedere. Anche se quest’anno può ancora evitare il fondo della classifica. Il tutto distribuito negli ultimi 25 anni, a conferma che certe consuetudini non hanno epoca. La partita con la Roma di lunedì è stata soltanto quella della matematica. Neanche un altro ritorno, quello di Zdenek Zeman in panchina, ha funzionato. Per ora, perché è evidente che è stato richiamato per ricostruire in serie B.
Un solo gol, ancora al Genoa, e il ritorno in patria. Gli ultimi anni nel calcio minore del suo paese, chiudendo la carriera a casa sua, nello Zrinjski Mostar. Storicamente considerata la squadra della borghesia cittadina, di cui oggi è allenatore. Una nuova veste, con cui ha avuto la possibilità di sedersi anche sulla panchina della Nazionale bosniaca. Non ha mai potuto sostituire, in quegli anni, Edin Dzeko. E, di conseguenza, non è mai successo che Edin Dzeko ce l’abbia mandato. Per il semplice fatto che il nostro centravanti non aveva ancora esordito in Nazionale. Di certo c’è che quella dei suoi 8 gol è l’unica salvezza in serie A della storia del Pescara.
Lui è Blaz Sliskovic, detto Baka. E non meritava di essere raccontato perché nel calcio mondiale non ha lasciato nessun segno. Come succede a tanti talenti balcanici. Il perché, probabilmente, l’abbiamo anche spiegato. Però è riuscito a salvare il Pescara e a insegnarci che si può amare ed essere amati. Che forse Dzeko non ce l’avrebbe mandato, se l’avesse sostituito. Che forse non l’avrebbe neanche sostituito. Lasciandolo in campo ad inseguire l’idea sentimentale di un gol da aggiungere a tutti gli altri. Che forse lui stesso avrebbe preteso, magari anche con gli stessi modi, di continuare la propria partita. Ma queste, in fondo, sono solo sottigliezze retoriche. Quanto vi ha fatto piacere notare che quasi a nessuno sono interessate più di tanto?