C’è un grande fermento, e soprattutto dibattito, in casa Roma. Già, perché è fondamentale centrare la prima vittoria europea – contro la Dinamo Kiev – e la discussione si è fatta serrata: sulla presenza della società, sull’operato dell’allenatore, sul ruolo dei calciatori e sul modo giusto per rovesciare risultati e umori. Con Juric che, dribblando la questione relativa alla qualità del gioco, alla vigilia ha preferito puntare l’indice su quella mentalità vincente che la Roma – a suo dire – sembra aver perso.
È davvero così? O bisognerebbe alzare l’asticella anche tecnica? Certo è che quattro giorni fa, nella sfida con l’Inter, in tanti si sono lanciati in commenti pieni di entusiasmo nel vedere Dybala correre a perdifiato all’indietro, per contrastare un avversario. O ripiegare fino alla propria trequarti per impostare l’azione. Un “sacrificio” talmente apprezzato da far dimenticare le poche opportunità create in avanti. Problema tecnico o di mentalità? Juric, per questa partita, ha annunciato che Dybala si accomoderà almeno inizialmente in panchina.
Lasciando però in piedi una questione centrale: perché quello che si chiede a Dybala – ma in fondo a tutti gli uomini di fantasia – fotografa l’idea corrente di calcio “moderno” e si abbina perfettamente al famoso slogan per cui “si perde e si vince in undici” e soprattutto “ci si difende in undici”. Un concetto per la verità condivisibile a apprezzabile, perché una squadra va giudicata nel suo complesso: ed è giusto pretendere anche dagli attaccanti, anche dai fantasisti, un atteggiamento collaborativo.
Cominciando ad esempio a chiudere le prime linee di passaggio ai difensori avversari. Ma, per essere chiari, non è questo il punto. Il punto è chiedersi se questa predisposizione al “sacrificio” debba prevedere anche affannosi e faticosi recuperi di 50 metri. Se, in nome del famoso calcio totale (impreziosito da giocatori “box to box” direbbe Fonseca) sia opportuno far rientrare così spesso Dybala, chiedendogli di fare a tratti il play o addirittura il terzino (si può chiamare ancora così?) per proteggere la fascia.
La sensazione, assolutamente personale, è che nelle squadre tutti debbano collaborare, ma certe esagerazioni finiscano per rappresentare un limite e non un vantaggio. Domanda banale: ma tutto questo succedeva con Pelè, Maradona, con Platini? E di Messi – banalizzando il discorso – abbiamo apprezzato di più le mille magie sulla trequarti o i cento recuperi nella sua metà campo? Non sarà, insomma, che per enfatizzare il calcio moderno – che pure va apprezzato per tanti motivi – si sia finito per snaturare il senso del “gioco di squadra”? Sì, perché il gioco di squadra non dovrebbe servire – è evidente – per mettere tutti sullo stesso piano, dal punto di vista atletico e tecnico, ma per esaltare e qualità individuali all’interno del collettivo.
Era forse una assurdità – per estremizzare – quando si diceva a Lodetti di correre anche per Rivera? E la mentalità vincente si costruisce più esaltando le qualità tecniche dei fuoriclasse o la loro disponibilità al sacrificio? Insomma, complimenti a Dybala per i suoi recuperi e la sua generosità. Ma la domanda è banale: non sarebbe meglio – e non vale solo per Dybala – tutelare chi sa inventare calcio? Non è così, anche così, che si esalta il gioco, si alza il livello e si rinforza la mentalità vincente di una squadra?
FONTE: La Gazzetta dello Sport – A. Vocalelli