Non sempre i risultati raccontano la verità ma spesso aiutano a comprenderla: per la quarta volta nella sua storia la Roma è partita con zero vittorie nelle prime quattro giornate di un campionato. Il dato preoccupa perché soltanto in un caso, fra i tre persi nella memoria, ha poi invertito decisamente la rotta chiudendo al terzo posto (1974/75), piazzamento che nel calcio contemporaneo varrebbe il ritorno in Champions dopo sei anni.
Daniele De Rossi, che fino ad aprile aveva realizzato un’impresa sportiva raddrizzando la stagione da allenatore subentrato, ha abbassato notevolmente la sua media-punti: nelle ultime 12 partite, Europa League inclusa, ha battuto solo il Genoa all’Olimpico. Ed è curioso che sia proprio un’altra partita contro il Genoa, in cui la vittoria è sfumata al minuto 96, a sollevare le prime perplessità.
Senza il gol di De Winter, parleremmo tutti di una Roma intelligente e cinica che ha saputo capitalizzare il tap-in di Dovbyk. Invece adesso sembra tutto di nuovo in discussione, perché la svolta attesa a Marassi dopo un mercato di grandi investimenti non c’è stata: la Roma ha addirittura un punto in meno dello scorso anno, quando la partenza di Mourinho fu considerata molto deludente.
Sorprende in particolare che una squadra costruita per sfruttare la grande qualità offensiva abbia finora segnato solo due reti: da 33 anni – erano i tempi della contestata Roma di Ottavio Bianchi – il raccolto non era così povero dopo 360 minuti di campo. Ed è logico pensare che De Rossi abbia la sua parte di colpe: le sostituzioni di domenica, se viste a posteriori, non hanno aggiunto solidità e struttura al telaio ma hanno anzi spaventato i giocatori che si sono ritirati nella loro metà campo per cercare di proteggere il gol di vantaggio.
Anche la formazione di Roma-Empoli, con quel primo tempo disastroso, non è stata una grande idea. Ma tutto questo è parte di un percorso che i Friedkin, sbarcati ieri a Ciampino, hanno affidato a un leader senza alcuna esperienza da allenatore di Serie A: in pochi ricordano che De Rossi sia arrivato soltanto a 22 panchine in pochi mesi di lavoro. Che potesse commettere qualche errore, o che sottovalutasse qualche situazione, era inevitabile.
Tanto è vero che la proprietà, a dispetto dei bookmakers che hanno abbassato la quota sull’esonero e dei primi mugugni della tifoseria, non sembra intenzionata a cambiare strada: se i Friedkin hanno chiesto a De Rossi di firmare un ricco contratto triennale è perché credono che, passo dopo passo, i successi arriveranno. E ieri lo hanno ribadito nel meeting pomeridiano a Trigoria, alla presenza dell’allenatore e dei dirigenti.
Gli alibi a De Rossi non mancano. Dopo un’estate quasi intera trascorsa a provare il 4-3-3, nella prospettiva dell’addio di Dybala, la Roma ha cambiato strategia senza riuscire a inserire tempestivamente il difensore dominante che facilitasse la sterzata sul 3-5-2: nessuno poteva prevedere che l’austriaco Danso, abituato a sfidare senza timori Mbappé all’Europeo, fosse fermato dai medici.
Koné, il centrocampista tanto desiderato, è arrivato a campionato iniziato, così come gli svincolati Hermoso e Hummels che non sono ancora in condizione. Tra l’altro qualche buco nella rosa è rimasto: il costosissimo acquisto di Le Fée poteva essere evitato spostando il denaro su un esterno destro come Bellanova, dal momento che De Rossi ha avuto il coraggio di lanciare a centrocampo Niccolò Pisilli e non se ne è pentito.
Ma gli investimenti sono stati enormi e devono essere in qualche modo premiati. Basta ascoltare l’onesta disamina dell’allenatore, che pretende di essere giudicato come tecnico ambizioso e non come vecchio totem romanista. E’ un’assunzione di responsabilità che gli fa onore. De Rossi è il primo a sapere che le due partite all’Olimpico contro l’Udinese capolista e il Venezia non si possono sbagliare: da qui a prefigurare ribaltoni immediati però ce ne corre.
FONTE: Il Corriere dello Sport – R. Maida