Determinata, solida, ma non abbastanza qualitativa. La Roma ha sintetizzato dentro a un grigio derby vizi e virtù di una squadra che non svolta mai. Contro la Lazio ha evitato la sconfitta grazie al raggio di Soulé e ai balzi di Svilar, allungando a 16 le giornate di imbattibilità in cui ha tenuto un ritmo da scudetto.
Ma ha riproposto i soliti, atavici limiti negli scontri di alta classifica che neppure il genio di Ranieri ha potuto cancellare: i cinque pareggi, nella serie mirabolante cominciata prima di Natale, sono usciti contro Milan, Bologna, Napoli, Juventus e Lazio, le avversarie più forti incrociate negli ultimi quattro mesi di campionato. E se estendiamo l’analisi alle coppe, la Roma è stata eliminata dal Milan e dall’Athletic, dopo aver superato ostacoli più comodi.
Così non si va molto lontano, a maggior ragione osservando i prossimi impegni in calendario: dopo la partita prepasquale contro il Verona, Ranieri affronterà in sequenza Inter, Fiorentina, Atalanta e Milan, prima della chiusura in casa del Torino. La rincorsa Champions League si è praticamente conclusa domenica, nonostante un distacco dal quarto posto ancora accettabile (-5).
Ma la Roma faticherà a mantenere anche il settimo, che potrebbe qualificare almeno alla Conference, se non accelererà il passo rispetto al doppio 1-1 contro Juve e Lazio. C’è un dato che impone una riflessione: negli ultimi tre anni, per una coincidenza numerica ma non tecnica, la Roma ha sempre terminato il campionato a 63 punti. Non uno più non uno in meno.
Oggi, a sei giornate dalla fine, ne ha 54 (-1 rispetto al 2024). Difficile che quattro stagioni consecutive mentano sui valori complessivi, al di là degli appassionanti percorsi internazionali che hanno distolto energie e attenzioni: pur cambiando dirigenti, allenatori e calciatori la Roma non ha mai meritato di giocare la Champions, che Friedkin infatti non ha ancora vissuto da presidente.
Appena il livello sale, i difetti si notano più dei pregi: se in quattro anni raccogli solo 47 punti su 168 negli scontri diretti, il 28 per cento del totale, non sei competitivo per i grandi obiettivi. E se non sei competitivo è perché gli altri – meglio, prima uno e poi un altro a seconda delle stagioni – sono più forti.
Ranieri è un grande allenatore e una persona sincera. Dopo la partita contro la Juventus ha sorriso amaro quando è stato sollecitato sulla differenza tra la rosa della Roma, per giunta depotenziata dall’infortunio di Dybala, e gli organici che puntano alla Champions League. «Il gap c’è» ha ammesso Ranieri, che con le sue capacità è riuscito a rivitalizzare giocatori ormai fuori dai radar (Shomurodov, Celik, ora Soulé) e a restituire l’anima a un gruppo spento e svuotato.
Così si spiegano le 11 rimonte riuscite nella sua gestione. Ma neanche uno chef stellato, per usare una sua espressione, può fare miracoli senza gli ingredienti giusti. Entrando in corsa, Ranieri ha migliorato la fase difensiva e trasferito alla squadra la sua mentalità battagliera. Gli è servito a ottenere risultati impensabili, almeno in campionato, con una squadra buona ma non ottima e con la classifica compromessa. In tanti sostengono che se il suo kit di pronto soccorso fosse arrivato prima a Trigoria, invece che a novembre, la Roma avrebbe guarito le ferite in tempo per aggredire il vertice.
Ma non ha senso pensarlo. E’ più utile invece cercare di ricordare tutti gli errori che hanno obbligato Ranieri a tornare in panchina. Sir Claudio completerebbe un’impresa se riuscisse a lasciare in eredità un piazzamento europeo. Ma poi dovranno essere altri a occuparsi degli step successivi: il circolo vizioso, senza i soldi della Champions non si va in Champions, può essere interrotto con le idee. Chiedere a Napoli, Atalanta, Bologna, che spendono meno e si divertono di più.
FONTE: Il Corriere dello Sport – R. Maida