Hanno rimandato la chiusura della conferenza dei servizi che deve decidere il destino del nuovo stadio della Roma al 3 marzo. Non hanno quindi risolto un bel nulla e a questo punto le vie legali diventano scenario concreto: ricorso al commissario governativo in caso di inadempimenti da parte del Comune, causa da centinaia di milioni di risarcimento se addirittura arrivasse un no. Almeno però hanno scavalcato uno stallo imbarazzante nell’unica maniera possibile. La lettera arrivata in Regione Lazio lunedì mattina e che conteneva la bocciatura del progetto da parte del dipartimento urbanistico comunale aveva tra le firme quella dell’ingegner Fabio Pacciani. Che per buona sorte, o per saggia decisione, era anche il rappresentante dell’amministrazione capitolina alla riunione di ieri in conferenza dei servizi. E ha avuto buon gioco nel sostenere che quell’apparente colpo di mannaia era in realtà una richiesta di approfondimenti sul rischio idrogeologico dell’area di Tor di Valle, indirizzata in primissimo luogo all’autorità di bacino del Tevere.
TENTATIVO – Su richiesta del Comune se ne riparla tra un mese e va benissimo a tutti. Tranne alla Roma e al costruttore incaricato Luca Parnasi. La sospensione della conferenza dei servizi era necessaria al Comune che, oltre a dover ancora mettere in piedi buona parte degli adempimenti che gli spettano, ha il problema principale di capire chi comanda a casa sua e di conciliare tutte le spinte contraddittorie al suo interno fino a prendere, finalmente, una direzione nitida su questa iniziativa. Va bene alla Regione che non è costretta a fare una faccia troppo feroce e a chiudere le porte alla realizzazione del nuovo stadio, rischio che nelle ultime 48 ore si era fatto assai concreto. Va bene a un gruppetto di enti competenti che ancora non hanno espresso compiutamente i pareri prescritti. «E hanno ricevuto l’invito formale a non presentarli, magari, il giorno prima dell’ultima seduta» puntualizza l’assessore regionale al territorio Michele Civita. Così, mentre una decina di membri dei comitati per il no manifestava fuori degli uffici distaccati della Regione, dentro si prendevano un po’ più di tre ore per decidere di non decidere. Del resto era inevitabile. L’alternativa sarebbe stata l’abbandono del progetto. Adesso almeno c’è un altro mese di tempo (non di più: ultima pausa prevista dalla legge) per provare la conciliazione tra Roma e Comune. Lì devono mantenere l’equilibrio finanziario dell’opera, qui puntano a ridurre la dimensione del progetto globale: un milione di metri cubi di costruzione sono troppo pesanti da digerire per il Movimento 5 Stelle.
CONDIZIONI – La trattativa è legittima, la questione vera sta nel fatto che un mese sembra un ritardo insopportabile (il presidente giallorosso James Pallotta è dato per lievemente innervosito) e in realtà svanisce in un soffio. In quel soffio, oltre a completamento dei pareri, paci interne, quadrature dei cerchi, va fatta una cosuccia da niente come la variante urbanistica. Perché va fatta, siano un milione o meno i metri cubi in gioco. Civita l’ha sottolineato: «Devono arrivare atti che completino le procedure, quindi anche valutazioni di carattere urbanistico. Certo, il Comune può decidere diversamente». Il rappresentante di Roma Capitale non ha preso alcun impegno ma ha espresso valutazioni positive sul progetto, mentre la Città Metropolitana si è detta contraria aggiungendo però che sotto alcune condizioni cambierebbe il proprio giudizio. Tutti si lasciano le mani libere. La Regione ha ribadito in un comunicato «la necessità che Roma Capitale completi la procedura di variante urbanistica e approvi lo schema di convenzione». Magari accadrà. In un mese possono succedere molte cose. Anche nessuna. Quindi il rappresentante della Roma e dei proponenti ha fatto mettere a verbale un’osservazione a proposito dell’inerzia del Comune: se si arrivasse al nulla di fatto e a un contenzioso legale, è il senso della cosa, nessuno potrà sostenere che non vi avevamo avvertiti.