Era il 22 settembre 1994 (ricorrenza di oggi). Le nostre radio emettevano due canzoni, dividendole quasi equamente tra loro. Molto diverse ma in fondo tanto uguali. La prima era interpretata da Youssou N’Dour e Neneh Cherry, che cantavano in 3 lingue: inglese, francese e wolof, che è la lingua del Senegal. Si chiamava 7 seconds, e nel testo venivano raccontati i primi 7 secondi di vita di ogni bambino. Quelli che vengono quantificati come gli unici di felicità spensierata, quelli in cui ancora non si conoscono i problemi dell’esistenza.
La seconda è un brano dance che deve il successo alla versione firmata Mauro Pilato e Max Monti, ma che ha radici molto più profonde. Si chiama Gam gam, e il testo è un passaggio del Salmo 23 dell’Antico Testamento. Il primo a darle un risalto universale è stato il regista Roberto Faenza, soltanto un anno prima, nel 1993. Nella sua pellicola forse più importante, ovvero Jona che visse nella balena. E’ la canzone in lingua ebraica che viene insegnata a Jona e agli altri bambini, deportati come lui a Bergen-Belsen, dalla maestra dell’asilo del lager.
Jona che visse nella balena è la versione cinematografica del romanzo Anni di infanzia di Jona Oberski, un fisico nucleare olandese che finì con i genitori nei campi di concentramento a soli 2 anni. La pellicola vinse 3 David di Donatello: miglior regia, migliori costumi e migliore musicista. Quest’ultimo premio è uno dei 9 vinti in carriera da Ennio Morricone che, per la versione di Gam gam della colonna sonora del film, optò per un arrangiamento klemzer, uno stile musicale tipico delle comunità ebraiche yiddish (ovvero quelle originarie dell’Europa orientale). Le versioni musicali del Salmo sono comunque parecchie. Le prime sono riconducibili a due grandi compositori classici come Bach e Schubert. Pilato e Monti, invece, la ripresero dandole il classico timbro eurodance.
In maniera parallela, lo share delle tv americane subì probabilmente una forbice un po’ più ampia. E’ giovedì sera, l’episodio pilota di una nuova sit-com viene programmato sulla NBC per le 20:30 e inserito tra 2 telefilm parecchio collaudati. Mad about you, che in Italia si chiamava Innamorati pazzi e andò in onda su Italia 1. E Seinfeld, che da noi non ha preso particolarmente, ma che negli USA è considerato qualcosa di assolutamente rivoluzionario, una sorta di riedizione del Monty Python’s Flying Circus. Che contribuì decisamente, alla fine degli anni ‘60, a cambiare sia lo stile che i contenuti della tv mondiale.
Da noi non ha preso e non è ben chiaro perché. Né Rai né Mediaset si presero la responsabilità, fu TMC2 (quante perle ha regalato quella rete in quegli anni, io le sono particolarmente legato) a mandarlo in onda. Prima in fascia preserale, poi in seconda serata, non era una gestione facile neanche per loro. Forse perché Seinfeld era una sit-com basata sul niente. Il concetto di minimalismo era praticamente spiegato in ogni episodio. Probabilmente era troppo all’avanguardia per un paese spesso legato a soluzioni decisamente meno enfatiche.
La prima puntata fece 22 milioni di telespettatori. Il Central Perk, che era il bar in cui i protagonisti spesso si ritrovavano (situato a Greenwich, quartiere di New York) rimarrà aperto per 10 stagioni, 236 episodi. Anche se nella realtà non esiste. Gli interni sono stati prodotti nei Warner Bros. Studios in California, dove veniva girata la serie. Ispirati dal Manhattan Cafè del West Village a New York, o dal Cholmondeley’s, una caffetteria interna all’Università di Brandeis (dove studiò uno degli autori). Gli esterni sono quelli di un locale chiamato The Little Own, che si trova nello stesso quartiere in cui è ambientato il telefilm. E’ giusto comunque precisare che né in quello vero, né in quello finto, è andata a mangiare Virginia Raggi mentre Malagò la aspettava in Campidoglio per una riunione sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Era proprio da tutt’altra parte.
Comunque, quella sera in cui gli USA scoprivano Friends (al netto di tutti i fusi orari che vanno a sporcare di parecchio ogni tipo di contemporaneità), la Roma si apprestava ad accogliere all’Olimpico il Fiorenzuola, squadra di un piccolo paese del piacentino che in quegli anni aveva vissuto un’epoca d’oro in cui sfiorò addirittura la serie B. Forte dello 0-3 dell’andata, il ritorno era a metà tra la formalità e la realizzazione di un sogno di tanti avversari.
Finirà 2-1. Il gol della bandiera per i rossoneri lo segna nel finale un giovane romano, cresciuto nella Lodigiani e passato alla Sampdoria ancora in età per le giovanili. Solo qualche giorno dopo, i blucerchiati lo richiameranno per completare l’attacco della prima squadra, a causa dell’infortunio di Bertarelli. Si chiama Claudio Bellucci, ne sentiremo parlare. Anche mercoledì, all’Olimpico, è arrivata una squadra che sta vivendo il proprio sogno ad occhi aperti. Ma il Crotone, che se l’è comunque giocata, non ha potuto fare molto di fronte a una Roma scesa in campo con una formazione offensiva e con l’atteggiamento giusto.
Tornando a quella sera di 22 anni fa, per la Roma segnò Cappioli nel primo tempo. Mentre nella ripresa il secondo gol lo firmò un giovane attaccante, biondo, un’impropria maglia numero 9 per l’occasione. Da qualche tempo lui e chi oggi indossa la maglia numero 9 sembrano aver stretto una salda amicizia da affinare il più possibile all’interno del campo da gioco. Con reciproca soddisfazione, senza contare quella di squadra e tifosi. Perché, come diceva Aristotele, “si decide in fretta di essere amici, ma l’amicizia è un frutto che matura lentamente”.
Edin Dzeko oggi indossa il numero 9 è terzo nella classifica marcatori della serie A. E’ chiaro che beneficia della presenza di chi ha la classe cristallina di assecondare maggiormente i suoi movimenti. E’ chiaro anche che non può essere così per tutti i 90 minuti della stagione, però i numeri dei due quando giocano insieme vanno tenuti in conto. Il numero 9 di quella sera invece segnò saltando 2 avversari in area e dando un apporto decisivo per la vittoria. Ma stavolta mi sembra superfluo dirvi chi è. Anche perché vi pare che da allora, numero di maglia a parte, le cose siano cambiate molto?