Più che un’intervista, è un instant book. Nove anni di As Roma riassunti in una ventina di fogli A4, James Pallotta lascia il suo testamento giallorosso a The Athletic, la rivista online sportiva americana, che raccoglie le confessioni dell’ex presidente. Nove anni di gestione, una valanga di milioni investiti come mai nessuna proprietà ha fatto nella storia del club, 80 dei quali destinati al progetto di uno stadio che non vedrà mai la luce. Tanti campioni acquistati, ma quasi sempre rivenduti perché se si decideva di rispettare le regole del fallimentare Fair Play Finanziario della Uefa era impossibile fare altrimenti, non avendo nel frattempo l’opportunità di generare ricavi con un impianto di proprietà.
A forza di comprare e cedere, la Roma è diventata forte, ma mai abbastanza per battere la Juventus. E allora, quello zero nella casella dei titoli vinti, è diventato una condanna per Pallotta. Il presidente più innovativo e per certi versi geniale della storia, ma tra i più odiati di sempre da gran parte dei tifosi. Soprattutto dall’anima tradizionalista, che non si è mai sforzata di capirlo. Come lui non ha mai fatto abbastanza per spiegarsi meglio. Adesso Pallotta si guarda indietro e racconta, in primis a se stesso, perché è dovuto scappare da quella sorta di inferno che era diventata per lui la Roma.
«Sono arrivato a un punto – spiega parlando dei suoi ultimi giorni da presidente prima della cessione al gruppo Friedkin – in cui pensavo: “perché sto spendendo il mio tempo per andare laggiù e stare pochi giorni? Quando rifletto sugli anni che ho passato come presidente prima di vendere il club, mi rendo conto che quasi il 15% della mia vita è associato alla Roma. Adesso, mentre ripenso al mio tempo trascorso alla guida del club e interagisco con i tifosi su Twitter, la mia unica frustrazione è che alcune persone non si rendono conto di quanto amassi la Roma, di quanto ho lavorato duramente per portarla al successo e quanto tempo ho dedicato a cercare di farla funzionare».
A fine febbraio i Friedkin hanno annunciato l’abbandono del progetto a Tor di Valle. Il sogno di Pallotta è stato spazzato prima dalla diabolica burocrazia romana e dalle lotte di potere, poi dalla Roma stessa, che punta a costruire uno stadio più piccolo, su un terreno pubblico, senza doversi accollare i costi delle infrastrutture. Nell’area del vecchio ippodromo sarebbe nato un qualcosa di molto più grande.
«Faceva male non poter avere uno stadio nuovo, era necessario costruirlo per poter restare stabilmente tre le prime 10-12 squadre del mondo. Avevamo un sacco di grandi sponsor in attesa – rivela un malinconico Pallotta – la Coca Cola era una di questi e sono andato ad Atlanta a parlare con loro. Con alcuni parlavamo dei diritti sul nome dell’impianto e ci avrebbero dato 15-20 milioni l’anno solo per quello. Avevamo una grande schiera di partner che volevano essere coinvolti, probabilmente c’erano 100 persone che mi hanno mandato un’email dicendo: “non vedo l’ora che venga costruito lo stadio. Voglio sposarmi lì. Siamo arrivati al punto in cui abbiamo pensato di metterci un impianto di cremazione o un cimitero per le persone che vogliono che le loro ceneri siano sparse sul campo».
Non solo una casa per le partite della Roma, ma un polo di intrattenimento che, secondo il business plan degli americani, avrebbe portato, una volta a regime, ricavi da 100 milioni l’anno nelle casse del club, contro la ventina scarsa che si ottiene dalle partite all’Olimpico o i 65 guadagnati dalla Juventus con l’Allianz Stadium.
«Sarebbe stata la struttura più utilizzata nell’Europa del Sud. L’Olimpico non va bene per i grandi concerti, se ad esempio volessero suonare a Roma i Rolling Stones vorrebbero portare più di 100 camion con le varie attrezzature per il loro tour e non c’è posto per farli entrare. Quindi non avrebbe un senso a livello economico. Se avessimo costruito il nostro nuovo stadio non avremmo fatto pazzie per i prezzi dei biglietti, ma ci sarebbero stati dei palchi privati e avremmo dato la possibilità di poterli utilizzare per tutti gli altri eventi come i concerti a chi li avesse comprati. Sapevamo di avere enormi opportunità di generare ricavi e sarebbero stati reinvestiti nella squadra».
Perché tutto questo non è stato possibile? «Probabilmente avremmo dovuto essere più in sintonia con quelle che erano le persone migliori con cui collaborare lì. Siamo arrivati troppo tardi per farlo. Abbiamo speso 80 milioni di euro per avere nulla in cambio». Durante gli anni della sua gestione Pallotta ha sempre combattuto le narrazioni dei media, locali e non, che hanno contribuito non poco a ad alimentare l’odio crescente dei tifosi nei suoi confronti.
«I romanisti ricevevano così tanti messaggi contrastanti dalla radio o dai giornali ed erano semplicemente falsi. Avrei dovuto passare tutto il mio tempo a smentire. Ma abbiamo deciso di aspettare che arrivasse il momento in cui la gente avrebbe capito e si sarebbe fidata di noi che stavamo spendendo tutti quei soldi e volevamo costruire una grande squadra. Hanno detto: “Pallotta vuole solo costruire uno stadio per guadagnare soldi per se stesso”.
Invece era strutturato sotto una holding, quindi avevi la squadra da una parte e lo stadio dall’altra. Bisognava fare così per proteggere il club da fallimento nel caso in cui fosse successo qualcosa al progetto dello stadio. E tutto ciò che avremmo ottenuto col nuovo impianto sarebbe stato a beneficio della squadra, al 100%». Ma quanti avevano interesse a raccontarlo? La spiegazione di Pallotta sulla tribuna autorità dell’Olimpico aiuta a capire meglio perché si sia fatto tanti nemici.
«Quattromila tra i posti migliori per ogni partita della Roma venivano dati via gratuitamente alle persone. Non hanno pagato per avere un abbonamento». Scoperta la cosa, gli americani hanno dato un bel taglio a questa «tradizione» e «le persone – racconta l’ex presidente – non erano felici di noi fin dall’inizio. Per quello che abbiamo potuto fare, la nostra area Vip all’Olimpico è stata spettacolare. Il problema è che dovevamo smontarla e rimontarla ogni quindici giorni, perché ci alternavamo con le partite della Lazio».
Altro motivo che ha fatto desistere Pallotta e soci è il modello di gestione del campionato, poco aperto alle innovazioni e alle idee esterne. Il bostoniano ha partecipato a pochissime riunioni, ma gli sono bastate. «Non ho mai visto niente del genere – racconta – guardavo i presidenti litigare e pensavo: ora scavalcheranno i tavoli e inizieranno a picchiarsi. All’inizio mi sembrava persino interessante, ma poi… Se guardi la Premier League c’è qualcuno che la gestisce. Lo stesso accade con la Liga spagnola. In Italia chi ha guidato la Lega in questi anni? I club litigano su ogni cosa e non raggiungono quasi mai la maggioranza sulle decisioni importanti. E per alcune bastava semplicemente il buon senso. La Serie A è stato sempre un buon campionato, per un periodo era il migliore, ha tutto per esserlo ancora, le grandi città ad esempio. La mia frustrazione è stata vedere che bastava davvero poco per crescere, senza per forza dover raggiungere la Premier League».
Impossibilitato a cambiare il sistema italiano, ha provato a portare almeno una mentalità più aperta nella Roma. «All’inizio non conoscevo il calcio, guardavo le partite e non capivo perché venivano annullati i gol per fuorigioco. Ho dovuto studiare e intanto mi sono concentrato su altro, pensando a come costruire un grande marchio. La prima volta che sono andato a Trigoria ho radunato tutti e mi sono buttato all’indietro in piscina, senza sapere che non fosse riscaldata. Era il mio modo per far capire che le cose con me sarebbero cambiate.
“Siamo tutti sulla stessa barca. Voglio vincere trofei e festeggiare tuffandomi nelle fontane della città”». Lo ha fatto davvero, nella magica notte di Roma-Barcellona 3-0, il punto più alto della gestione pallottiana e il risultato più prestigioso ottenuto dalla squadra dai tempi dell’ultimo scudetto del 2001. Nel frattempo, l’opera di rinnovamento non aveva però portato i frutti sperati. Ad esempio nei reparti marketing e commerciale. «Sono entrato in un magazzino del club e dentro c’erano un milione e mezzo di infradito piccole col logo della Roma. Quando le ho viste ho detto: “Mio Dio!”.
Praticamente, qualcuno aveva chiuso un affare con un suo cugino che vendeva infradito e biancheria intima. Scoprire cose del genere è stato esilarante». L’articolo racconta di quando la società ha dovuto bruciare materiale prodotto che non avrebbe mai più venduto o confezionato maglie e quant’altro rimasto in magazzino e lo ha spedito in Africa per scopi benefici.
Nell’ambito del processo di rinnovamento del club, Pallotta ha deciso di spostare gli uffici del club all’Eur, perché i dipendenti a Trigoria passavano più tempo a sbirciare gli allenamenti di Totti e compagni piuttosto che a trattare nuovi contratti per la Roma. «Allenatore e direttore sportivo preferivano che non ci fossero tutte quelle persone attorno alla squadra».
Gli sponsor sono arrivati, vedi l’accordo-record con Qatar Airways che scadrà fra due mesi se Friedkin non riuscirà a ottenere un rinnovo, ma i risultati commerciali sono stati al di sotto delle attese. «Nike mi aveva promesso – spiega ancora Pallotta – che ci avrebbe trattato come il Barcellona. E se sei un idiota come me, credi che lo faranno davvero». James e i suoi soci non hanno scelto un periodo fortunato per gestire la Roma. Mentre provavano a costruire lo stadio al Campidoglio sono passati tre diversi sindaci e un commissario.
E intanto si avvicinava la fine della carriera di Totti e De Rossi, nessuno dei due realmente convinto di smettere. «Francesco è stato alla Roma per 30 anni. Alzarsi e andare a Trigoria, questo ha fatto ogni giorno per una vita. Quando stava per smettere noi intendevamo rispettare il contratto che aveva firmato con la proprietà precedente che prevedeva altri sei anni da dirigente. Ho avuto diverse conversazioni con lui, chiedendogli: “Ok, cosa vuoi fare dopo?”. Voleva allenare e allora gli ho spiegato che avrebbe dovuto studiare, ottenere la licenza da tecnico e poi dedicarsi a quello per 80 ore alla settimana. E gli ho detto: “Non capisco perché vuoi fare una cosa del genere a questo punto della tua vita”».
Quella era la prima idea di Totti, «e noi gli abbiamo portato chi poteva insegnargli ad allenare. Ma Francesco ha deciso abbastanza rapidamente che non faceva per lui. Gli ho anche detto: “Hai un buon tenore di vita ma con il contratto da dirigente, che sarebbe molto, molto soddisfacente per tante persone, ti dovresti abituare a uno stile di vita leggermente diverso”. E allora abbiamo parlato di coinvolgerlo in una serie di attività di marketing e sponsorizzazione, in modo che se avesse contribuito a concludere qualche affare, gli avremmo riconosciuto una percentuale».N
el frattempo Totti aveva però deciso di voler diventare un dirigente dell’area tecnica e non si sentiva coinvolto pienamente nella gestione della squadra. Pallotta pensava anche che «sarebbe stato fantastico se lui avesse lavorato con noi nella ricerca di nuovi talenti. Vi immaginate un ragazzo di 14 che si vede arrivare a casa una leggenda come Francesco? Avrebbe facilitato la scelta. Totti ci ha dato dei consigli e volevamo che lo facesse ancora di più. Abbiamo ascoltato suoi suggerimenti molto, molto forti su quale allenatore avremmo dovuto scegliere per la Roma. Lo abbiamo invitato diverse volte a venire a Boston, Nantucket (l’isola dove Pallotta ha un’enorme villa, ndr) o a Londra per partecipare ai nostri incontri di gestione».
Ma era tutto inutile, perché come lo stesso Capitano ha raccontato nel libro, nel docu-film e attraverso la serie tv in onda in questi giorni, c’era una sola cosa che voleva fare e continuerebbe a fare ancora adesso: giocare. Pallotta e i dirigenti hanno invece deciso di mettere un ragionevole punto quando stava per compiere 41 anni. E appena due stagioni dopo, lo stesso principio è stato applicato con De Rossi. Monchi, che nella testa dell’ex presidente rappresenta colui che ha rovinato la Roma con i suoi acquisti sbagliati, e gli altri membri dell’area sportiva ritenevano che a causa degli infortuni De Rossi avrebbe potuto giocare al massimo una partita a settimana. «Quindi cos’altro potevo decidere? Che c… dovevo fare? – si chiede Pallotta – il suo era un ruolo importante».
Gestire la società in quegli anni tormentati ha causato la rottura definitiva tra il patron bostoniano e la piazza romanista, che ovviamente si è schierata dalla parte dei due capitani in una inevitabile contrapposizione. In realtà, qualcosa tra Pallotta e la parte organizzata del tifo si era già rotto in modo definitivo quando la Curva Sud espose uno striscione contro la madre di Ciro Esposito, il tifoso del Napoli ucciso da un ultras giallorosso. «Ho fatto un’intervista – ricorda James – e ho chiesto che fosse tradotta perfettamente. Dissi: “C’è un piccolo gruppo di fottuti idioti – quelle erano parole esatte – che rovinano tutto a danno dei grandi tifosi della Roma».
Ma non fu capito neppure quello ed stato un punto di non ritorno. Dopo gli strappi con Totti e De Rossi, il livello di scontro è diventato insostenibile, anche con un Oceano di mezzo. «È stato inquietante – dice Pallotta – a livello personale posso prendermi gli insulti e restituirli. Se vuoi picchiarmi, provaci e fai del tuo meglio. Ma quando hanno iniziato a chiamare le mie sorelle “puttane” e mia madre “un maiale” e ad attaccare i loro ristoranti, le loro attività e altre cose del genere, allora è davvero troppo. Quindi mi sono detto, perché dovrei andare a Roma ad ascoltare queste cose? Non è divertente».
Un distacco duro e triste, di un imprenditore che si è sentito respinto in ogni modo. E, come detto, non compreso. «Alcune persone pensano che solo perché non andavo alle partite ogni settimana o guardavo gli allenamenti tutti i giorni, non stavo lavorando per la Roma. Penso che se chiedessero a qualcuno dei manager che hanno lavorato per me, molti di loro avrebbero voluto che fossi meno coinvolto».
E adesso? La squadra è composta per la stragrande maggioranza da calciatori acquistati sotto la sua gestione, Pallotta non lo ammetterà facilmente ma continua a guardare le partite della Roma e prova un evidente nostalgia dal calcio. E per questo sta iniziando a ragionare seriamente sulla proposta che ha ricevuto mesi fa da alcuni amici investitori a partecipare all’acquisto del Newcastle in Premier League. Nell’intervista lo ammette a mezza bocca. Forse lo farà, forse no, di sicuro qualsiasi altra esperienza futura nello sport sarà più semplice della Roma. Ma, probabilmente, anche meno coinvolgente
FONTE: Il Tempo – A. Austini