Il guaio sono stati i suoi fedelissimi. E se è vero, come si dice, che la capacità di un leader sta nello scegliersi i collaboratori, Virginia Raggi ha un problema. Un altro. Perché in almeno due occasioni i suoi più fidi scudieri l’hanno trascinata davanti ai pm quando non addirittura in un’aula di tribunale. Estate 2016, Raggi è stata da poco eletta. Nomina capo del personale Raffaele Marra. Ai vertici del Movimento non piace perché è uomo della passata amministrazione. Lei lo vuole a tutti i costi. E lui rimane. Fino al 16 dicembre, quando finisce in carcere con l’accusa peggiore per un dipendente pubblico: corruzione. Per la sindaca sono giorni di puro panico. Fino a che può, cerca di difenderlo, salvo poi cambiare completamente strategia definendolo «uno dei 23mila dipendenti del Campidoglio». Peccato che fosse il numero uno delle Risorse Umane, non proprio l’ultimo dei fattorini. A quel punto, molti iniziano a interrogarsi sulle decisioni assunte da Marra, scoprendo che, stranamente, suo fratello maggiore, Renato, comandante della polizia municipale, è stato promosso appena due mesi prima a capo dell’Ufficio Turismo (con relativo aumento di stipendio). Apriti cielo, con Raggi che nel goffo tentativo di salvare la faccia si imbriglia da sola tra le maglie della giustizia: verga di suo pugno una missiva all’Anticorruzione capitolina con la quale si assume l’assoluta paternità di quella scelta, dichiarando che Marra nella nomina del fratello ha svolto un ruolo di «mera e pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte». Quello che Raggi non sa e nemmeno immagina è che mentre lei scrive quella lettera, i carabinieri del nucleo investigativo stanno analizzando il telefonino di Marra. Che consegna agli inquirenti una ricostruzione opposta: il capo del personale non solo sapeva ma si è dato parecchio da fare per la promozione del fratello. E la sindaca ne era a conoscenza al punto da infuriarsi: «Me lo dovevi dire dell’aumento di stipendio, mi mette in difficoltà», si legge in un sms. È così che Raggi viene iscritta nel registro degli indagati per abuso d’ufficio e falso. Il 2 febbraio 2017 viene interrogata sulla nomina di Marra senior e sulla promozione (con stipendio triplicato) a suo capo segreteria di Salvatore Romeo che le ha curiosamente intestato una serie di polizze vita. Da quella vicenda e dall’abuso, la prima cittadina ne esce: il 28 settembre la procura chiede il rinvio a giudizio per falso. Cade l’abuso e Raggi, incomprensibilmente, esulta: il falso è reato punito ben più severamente dell’abuso d’ufficio. A ridosso della decisione del gip, il 3 gennaio, la sindaca, con una mossa piuttosto insolita, chiede il giudizio immediato. È chiaro che l’obiettivo è di spostare le lancette oltre le elezioni politiche del 4 marzo. Quel processo è iniziato appena tre giorni fa.
Da un guaio giudiziario al prossimo. Nel vuoto lasciato da Marra e Romeo, riesce a infilarsi Luca Lanzalone, secondo la ricostruzione della sindaca, arrivato trionfalmente a Palazzo Senatorio su consiglio dei ministri Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro. Avvocato amministrativista, nell’aprile 2017 Lanzalone viene nominato alla presidenza di Acea e diventa uomo di riferimento della sindaca. Per lo stadio della Roma, certo, ma anche per molto altro. Fornisce pareri su tutto, nomine comprese: è stata la stessa Raggi a dire ai magistrati che fu Lanzalone a consigliarle Franco Giampaoletti come direttore generale del Campidoglio. Per qualche tempo, tutto sembra filare liscio.
Ma, ancora una volta, Raggi ha puntato sul cavallo sbagliato: il 13 giugno Luca Lanzalone viene arrestato. La procura lo accusa di avere ricevuto utilità da Luca Parnasi, il costruttore dello stadio della Roma. Questa volta la sindaca è testimone, non indagata. Ma, nel giro di pochi giorni, si trova, di nuovo e per due volte, faccia a faccia con il procuratore aggiunto Paolo Ielo, lo stesso che l’ha trascinata a processo. E che ora vuole capire quanto e quale potere avesse Lanzalone. E per quale motivo.