Quarantamila ieri, all’ora di pranzo, contro il Chievo, con un caldo da fucile, pinne e occhiali. Appena duemila in meno rispetto all’esordio in casa contro l’Atalanta quando i saldi estivi avevano ancora un senso. Trentaquattromila miniabbonamenti per la Champions League che mercoledì giocheremo a Madrid, per fortuna ci verrebbe da dire se non fosse che ci presenteremo al Bernabeu, lontano dall’Olimpico. Eppure c’è chi parla di disamore da parte dei tifosi romanisti, ma ci sembra chiaro che questo qualcuno debba aver sbattuto la testa da piccolo accusando danni irreversibili. Soprattutto se uno si ferma a riflettere sul comportamento casalingo della Roma da un anno e un pezzetto a questa parte. Più o meno un incubo, purtroppo confermato pure ieri contro il Chievo, due gol avanti all’intervallo, l’idea di poter finalmente tornare a vincere di fronte alla sua gente, quelli che Agostino Di Bartolomei diceva che bisognava rispettare, «sempre».
In fase di presentazione di questa stagione, si era detto più volte che un fattore che la Roma avrebbe dovuto migliorare per incrementare i settantatette punti conquistati nel primo campionato difranceschiano, era quello delle partite casalinghe. In particolare per quello che riguarda il campionato, visto che nella passata Champions davanti ai tifosi giallorossi la Roma aveva pareggiato solo con l’Atletico Madrid. Poi le aveva vinte tutte contro avversari che certo non garantivano una passeggiata di salute (Chelsea, Qarabag, Shakhtar, Barcellona, Liverpool). In campionato, al contrario, il ruolino di marcia aveva toccato vertici da via Crucis, uscendo dall’Olimpico per sei volte con gli stessi punti in classifica con cui era entrata. Sei sconfitte non possono essere un caso, pure se determinate da fattori diversi, come per esempio quella immeritata e arbitrale con l’Inter, anche se poi le altre cinque (Milan, Napoli, Fiorentina, Sampdoria, Atalanta), erano state più o meno meritate, conseguenza di una squadra che a casa sua, di fronte ai suoi tifosi che ci sono sempre stati, fosse colpita da paure che sarebbero inspiegabili anche da uno psicoterapeuta davvero bravo un bel po’. Se si vanno a esaminare i numeri della passata stagione, sarebbe stato meglio giocare trentotto partite in trasferta. Perché i numeri nel calcio non sempre dicono la verità, ma una tendenza la possono certificare. Nel passato campionato, la Romaha perso sei partite di campionato in casa (più quella di coppa Italia con il Torino), a fronte di un solo ko esterno peraltro sul campo della Juventus e pure con enormi rimpianti cechi. All’Olimpico la squadra di Di Francesco ha ottenuto 35 punti punti a fronte dei 42 sommati in classifica nelle gare esterne. Ha realizzato lo stesso numero di gol in casa e fuori, 30, ma mentre lontano da casa ha incassato la miseria di nove reti in diciannove partite, all’Olimpico ne ha subiti diciannove. Un’incongruenza ribadita pure dal fatto che in trasferta per dodici volte ha chiuso la partita senza subire gol (santo Alisson), al contrario dell’Olimpico dove solo in sei occasioni i tifosi non sono stati costretti a smadonnare per almeno un gol subito. Si pensava che su questi numeri fosse stata fatta una riflessione per cercare di restituire la Roma all’Olimpico, ma soprattutto alla sua gente che, pure in questo periodo di dubbi, perplessità, mancanza di risultati, incazzature più o meno oneste, sta continuando a dare una dimostrazione d’amore che non fa altro che confermare una passione che meriterebbe perlomeno risultati meno penalizzanti. E invece sono state sufficienti due partite, Atalanta e Chievo, per ribadire come la Roma all’Olimpico non si senta a casa sua, due pareggi, uno in rimonta con l’Atalanta dopo essere stati presi a pallonate, uno ieri subito in rimonta contro un Chievo (e bravo Olsen al novantesimo con quella parata su Giaccherini) che sotto di due gol non avrebbe mai dovuto costituire un ostacolo in grado di regalarci un’altra settimana (e speriamo bene al Bernebeu) di preoccupazioni e umore ai minimi termini.
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