«Quando sono andato in giro per case editrici, mi sentivo come un contadino che bussava in un ristorante di lusso, con un tartufo pregiato, grosso come un pallone». Il tesoro per palati fini era la biografia di Francesco Totti. E il sedicente contadino – che in realtà il tartufo, oltre a trovarlo, lo ha valorizzato e servito in tavola – è Paolo Condò, una vita in giro per il mondo a raccontare il calcio per la Gazzetta dello Sport, dal 2015 opinionista di punta di Sky. Lo si potrebbe tranquillamente definire il miglior giornalista sportivo italiano, se non fosse un ambiente di gente permalosa. Di certo è il più importante, almeno secondo France Football: è lui l’unico giurato italiano che vota per il Pallone d’Oro. «Ma con Francesco non abbiamo scherzato più di tanto, sulla cosa. Anche perché voto dal 2010: gli anni in cui è stato in corsa per vincerlo erano passati».
Ne avreste avuto di tempo… «Ci abbiamo lavorato una settimana al mese, da novembre: scendevo a Roma dal lunedì al giovedì, facevamo tre ore al giorno, la mattina o il pomeriggio, a seconda dei suoi impegni. La prima volta sembrava ancora il calciatore che parlava con il giornalista, era un po’ frenato. Dalla seconda settimana, è stato tutto molto più facile».
Non dev’essere stato facile convincerlo, semmai. Uno come Totti è come la Pietra Filosofale, tutto quello che tocca… «Il merito è di un mio amico, Alessio Nannini, uno degli autori con cui lavoravo per le interviste che facevo ai tempi di Gazzetta Tv. Un giorno mi chiama e mi dice che è entrato nello staff che cura la comunicazione social di Totti. Era sotto Natale, nel suo ultimo anno da giocatore, il 2016-17. Al che ovviamente gli faccio chiedere se avesse voglia di fare un’autobiografia di alto profilo. Una cosa alla Agassi, per intenderci».
Il suo “Open” fece scalpore… «Un libro eccezionale, che ha cambiato le regole delle autobiografie sportive, facendole diventare dei libri a tutti gli effetti. Da allora tutti si sono dovuti confrontare con quel tipo di prodotto. Non più semplicemente un elenco di imprese sportive, ma il personaggio che racconta anche i suoi lati deboli».
E la risposta? «È arrivata in tempi relativamente brevi, nel giro di una settimana. Mi ha fatto sapere che ancora non sapeva se si sarebbe ritirato dal calcio giocato al termine di quella stagione, ma che l’idea di fare un libro di alto profilo lo attirava».
Vi conoscevate? «Abbastanza poco. Ho seguito i suoi primi anni di Nazionale, ma dal 2002 in Gazzetta mi hanno cambiato incarico. Qualche trasferta della Roma. Mi arrivava la sua maglia a Natale, anche se non ci conoscevamo bene: lo prendevo come un segno di stima».
Come è iniziato il lavoro? «Ho aspettato la fine delle sue lunghissime vacanze, del 2017. Dopo aver smesso, si è riposato forse per la prima volta. E poi doveva decidere che fare, per il post-carriera. O meglio, doveva definire i dettagli, perché mi sembrava abbastanza chiaro che il suo futuro sarebbe stato alla Roma anche da dirigente. A ottobre mi ha invitato a casa sua, c’era anche Ilary. E abbiamo trovato l’accordo molto facilmente, perché avevamo la stessa idea su cosa fare: un romanzo verità, elegante. Era la sua unica condizione, e io ero perfettamente d’accordo: non mi interessava scrivere un libro con ‘Spalletti mi ha fatto questo, Capello mi ha fatto quest’altro’. Sarebbe stato come fare un torto alla sua carriera. Non dovevamo fare un elenco di partite, o di sassolini nella scarpa. Certo, qualche polemica c’è, ma non era questa la finalità del libro. Volevamo volare più alto, raccontare una traiettoria umana e sportiva unica al mondo. Sapevamo tutti che accettare di rimanere tutta la carriera in un solo club non gli avrebbe fatto vincere quanto avrebbe potuto. Che poi Totti ne ha alzati di trofei, tra Mondiale, Scudetto, e Coppe varie, ma la sua scelta di fedeltà lo ha reso una leggenda anche all’estero. In Italia è difficile trovare eguali, mi viene in mente forse solo Antognoni a Firenze. O Gigi Riva a Cagliari, ma bisogna tornare parecchio indietro nel tempo».
Del rapporto con Spalletti se ne parla, però… «Spalletti, dopo l’infortunio del 2006, passò varie sere con lui in clinica, per disegnare insieme la Roma dell’anno successivo. Parlavano di tutto, fino alle 3 di notte, non voleva che Francesco cadesse in depressione. Proprio per questo è rimasto molto sorpreso di quello che è successo dopo, vista l’intesa che aveva con lui anni prima».
È vero che ha dormito davanti alla camera sua, in albergo? «A Bergamo, in ritiro. Spalletti ha la fobia delle carte, Francesco stava in camera con Pjanic e Nainggolan, e lui era convinto che stessero giocando. Che poi probabilmente stavano davvero giocando a carte, ma non con quelle fisiche, ma sui cellulari».
Altri personaggi citati? «C’è un capitolo su Cassano, è intitolato ‘Batman e Robin’. Francesco lo considera il più forte con cui ha mai giocato, anche se per lui ha espresso solamente il 30% del suo potenziale. E si raccontano i tentativi di Francesco di salvarlo da se stesso. Gli vuole bene, nonostante i contrasti passati, perché lo considera un puro. C’è un episodio che lo dimostra, dopo quella famosa sconfitta con la Sampdoria, che costò lo scudetto a Ranieri. Ma lo lascio a chi leggerà il libro…»
Qualche aneddoto che invece si può anticipare? «La festa negli spogliatoi al Mondiale, dopo la vittoria nella semifinale con la Germania. Francesco si sdraia nella vasca d’acqua calda, per recuperare, e arriva Peruzzi, nudo, che per festeggiare tira nella vasca un lettino del massaggiatore. Che scena che dev’essere stata… avrei voluto essere una mosca, per stare in quello spogliatoio. Con Francesco che mi fa: ‘Per fortuna aveva una buona mira, altrimenti mi spaccava la testa’. Ma nel dubbio è uscito subito dall’acqua».
Si è raccontato volentieri? «Francesco è sempre stato un campione molto riservato. Noi facevamo sempre le richieste di intervista, ma lui di solito parlava una volta l’anno. Ma un libro e un’intervista sono profondamente diversi. Se parli così poco, è inevitabile per il giornalista concentrarsi sull’attualità, gli altri temi puoi a malapena accennarli. Più di 150 righe, di 50 domande, non puoi farle. Anzi, magari ad arrivarci, a 50 domande. Qui invece avevo 70 ore di registrazioni da sbobinare. E spesso le divagazioni erano più interessanti delle risposte vere e proprie».
Ha parlato di tutto? «Anche degli argomenti delicati. Gli ho fatto l’esempio di Agassi, che a un certo punto racconta di come stava pensando di cominciare a fare uso di doping, e lui si è messo a ridere, perché non c’è nulla che sia più lontano da lui del doping. Però ha parlato degli argomenti delicati…»
Poulsen, Balotelli… (…)
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