Il titolo in Premier…
«Eravamo morti. Questo è tutto ciò che stavo pensando mentre guardavo quella partita dalla panchina. Prima della partita, pensavamo tutti che il Manchester City sarebbe stato campione. Sapevamo che il QPR stava combattendo per la retrocessione, ma ci sentivamo forti. Tutto ciò che dovevamo fare era batterli, e avremmo vinto la Premier League. Nessuno ha creduto di poter perdere il titolo. Avevamo tutto nelle nostre mani. Quindi la partita inizia e tutto è tranquillo, poi bang – 39 minuti, Zabaleta segna. È 1-0 all’intervallo. Quasi comincio a rilassarmi, pensando: “Siamo quasi arrivati”.
Quindi il QPR pareggia dopo tre minuti nel secondo tempo. Assolutamente inaspettato.
Poi viene espulso uno dei loro sette minuti dopo. E poi ancora, in qualche modo, segnano un secondo gol. Succede tutto in 18 minuti. Bang bang bang. È stato pazzesco.
Ricordo che poco dopo il loro secondo gol Roberto Mancini era a bordo campo, furioso con tutti, gridando solamente “Fottiti! Dai! Fottiti!”. Non so nemmeno con chi stesse parlando, stava solo imprecando.
Pensavo fossimo morti. Era come se nessuno potesse sopportare la pressione. Pensavamo tutti di esserci fatti scappare l’occasione. Dopo una grande stagione, avremmo perso tutto in una partita. Alla fine, Mancini mi mette in campo, e continuiamo a fare del nostro meglio, ma non succede nulla. Il calcio è così a volte. La palla finisce sempre dalla parte sbagliata del palo.
Ottantanovesimo minuto, novantesimo minuto… Siamo morti.
Arriva il recupero, e penso che abbiamo cinque minuti in più. Se giochi a calcio sulla tua PlayStation e perdi 2-1 dopo 91 minuti, non ottieni mai la vittoria. È finita. Vai avanti e provaci subito, ora. Impossibile.
Quindi l’angolo. David Silva lo prese. Ho segnato quel gol: colpo di testa al minuto 91:20. Puoi vedermi urlare “Dai, dai!” a tutti, mentre corro di nuovo verso il cerchio di centrocampo. Ancora due, tre minuti da giocare. Forse non siamo ancora morti?
Quindi conosci il resto. Non so come l’abbiamo fatto. C’era sicuramente qualcuno da lassù che ci ha dato la possibilità di sopravvivere. La gente mi chiede tutto il tempo del gol di Aguero, e cosa si prova ad essere sul campo. Per essere onesto con te, l’emozione più forte era solo il sollievo. Non puoi immaginare quanto mi sentissi sollevato quando è stato segnato quel gol. Abbiamo lavorato per tutta la stagione con una squadra così grande e ci siamo comportati così bene, eppure siamo stati a pochi secondi dal perdere tutto.
Il primo titolo della città in 44 anni, vinto in questo modo? Pazzo. Quella partita mi ha mostrato che nel calcio e nella vita non puoi mai mollare. Se ti arrendi, sei un uomo morto. Eravamo morti e siamo venuti fuori inaspettatamente.
Probabilmente potreste dire che mi diverto a raccontare questa storia.
Parte della gioia che ne ricavo è ricordare gli altri che sono diventati campioni con me. Aguero, Silva, Yaya, Kompany e, naturalmente, Mario Balotelli, che era davvero un bravo ragazzo. A volte i media lo uccidevano per niente, e io non lo capivo. Era come se fosse il protagonista di un film – tutto bene o tutto male, era sempre Mario. Ma era un tipo molto divertente, ed era un campione».
Dai Balcani al City
«Ho avuto anche la fortuna di avere Kolarov e SaviÄ, due ragazzi cresciuti nei Balcani, come me. C’è un orgoglio speciale nel farcela in Premier League e diventare un campione quando vieni da dove veniamo. Dovete ricordare che sono nato a Sarajevo negli anni ’80. Durante la guerra, c’erano volte in cui dovevo smettere di giocare a calcio nelle strade perché partivano le sirene e dovevamo nasconderci.
Da piccolo, non capisci davvero il pericolo. A sei anni, sapevo cosa stava succedendo, ma sinceramente non ci pensavo molto. I genitori si occupano di tutto ciò che richiede pensiero e preoccupazione. Sono quelli che portano molto del peso, penso. Senza i miei genitori, la mia vita non sarebbe stata possibile. Quando la guerra finalmente finì quattro anni dopo, tutto fu distrutto. Non c’era più una città. Ricordo che mio padre mi portò al mio primo allenamento a ŽeljezniÄar e dovemmo prendere due autobus e un tram. Ci voleva più di un’ora per arrivarci, e ci stavamo allenando in un liceo perché lo stadio del club era stato distrutto. Anche se mio padre lavorava, mi portava lì ogni giorno e, quando l’allenamento era finito, mi portava sempre una banana.
Anche nei momenti difficili, hanno cercato di dare tutto a me e mia sorella.
Ognuno ha i propri sogni. Ma a quei tempi, quando il paese veniva ricostruito, era impossibile pensare a qualcosa di più. Mi ricordo solo di essere stato felice di poter giocare a calcio davvero, per la prima volta senza sirene o pericolo, o altro. Nessuna complicazione. Solo il calcio. Se avevo un sogno, era quello di giocare per la squadra maggiore del ŽeljezniÄar. E questo soprattutto per rendere orgoglioso mio padre, perché non è mai stato professionista, ma ha giocato per tutta la sua vita. Mi ricordo quando avevo 17 anni, ero con lui nel centro commerciale. Un giorno normale. Non riesco a ricordare cosa stessimo comprando. Improvvisamente, la chiamata arriva da uno dei miei allenatori. Dice: “Domani, stai andando con la prima squadra alla preparazione pre-stagionale”.
Mi giro e lo dico a mio padre, e lui è completamente sconcertato.
Tipo: “Chi? Perché? Quando? Con chi? Che cosa????”.
È stato un grande momento per me, soprattutto poterlo vivere con lui, perché era con me fin dal primo passo. Davvero, ogni passo per la mia formazione dopo la guerra l’abbiamo preso insieme. Non mi aspettavo che avrei mai giocato in Germania e Inghilterra, e specialmente in Italia. Per me, in quei giorni, la Serie A era il livello più alto. Negli anni ’90, hc’erano così tanti grandi giocatori in Italia, e ho davvero amato particolarmente Shevchenko. Quando ero un ragazzino, uno dei miei allenatori nelle giovanili mi chiamava “Shevchenko” e mi diceva che era per via della mia faccia. Ma l’ho adorato. Era il mio eroe.
Ogni passo per la mia formazione dopo la guerra, lo abbiamo fatto insieme. Non dimenticherò mai quando ho giocato contro Sheva quando ero a Wolfsburg, nel 2008. Era in prestito al Milan e giocavamo a San Siro. Ed è stato semplicemente incredibile. Prima della partita, l’ho preso da parte nel tunnel, e gli ho chiesto subito se potevo scambiare la maglia con lui dopo la partita.
Ha detto: “Sì, nessun problema”.
Bene, immagino abbia sentito quanto rispetto ho avuto per lui, perché nel primo tempo è venuto da me e mi ha dato la sua maglietta. Non ha nemmeno aspettato fino a dopo la partita. Lo ricorderò per sempre. Questi sono i momenti davvero speciali».
Roma «È divertente, ho giocato a calcio in molti paesi ora, ma è solo a Roma che mi sono sentito come se fossi a casa. Bosnia e Sarajevo saranno sempre al primo posto nel mio cuore, ma Roma è un buon secondo posto. La casa per me è un posto dove mi sento bene, dove posso pensare al calcio, dove non ci sono altri problemi e dove la mia famiglia è felice. Volevo andare in Serie A, così avrei potuto imparare la lingua, e ora ho costruito qualcosa di veramente bello qui.
Le persone mi chiedono sempre la differenza tra giocare in Inghilterra e giocare in Italia. L’Inghilterra è velocità, velocità, velocità. Qui ci sono tattiche, tattiche, tattiche. È incredibile quanto ho imparato in tre anni in Serie A. Pensano a ogni piccolo dettaglio qui. Ma la cosa più sorprendente per me è che posso chiamare una leggenda come Francesco Totti, mio amico. E gli dico tutto il tempo che vorrei essere venuto qui un po’ prima nella mia carriera, perché mi avrebbe aiutato a segnare tanti più goal! Giocare alcune stagioni con lui ha migliorato il mio gioco in maniera massiccia. Ha visto tutto sul campo e ha giocato palle che mi hanno spostato nello spazio che non avevo nemmeno considerato. Sono così felice di essere venuto in Italia e qui ho imparato molto sul calcio.
Abbiamo avuto il nostro “Momento QPR” in Champions League la scorsa stagione. Quel quarto di finale contro il Barcellona è stato uno di quei match di cui è possibile mostrare in seguito il nastro ai ragazzi e dire: “Guarda, guarda questa partita, e vedrai che non puoi mai mollare”. Nella partita di andata perdemmo 4-1. E perdere 4-1 contro il Barcellona ti porta di nuovo lì, a guardare un campo da calcio, pensando che sei morto.
Ma poi, con il ritorno in casa, sono un po’ fortunato e riesco a segnare il primo gol molto presto, forse al quinto o sesto minuto. La folla inizia a darci energia. Poi prendiamo il rigore nel secondo tempo. De Rossi calcia e tira nell’angolino in fondo a destra. Il portiere riesce anche a metterci una mano, ma De Rossi colpisce il pallone con tanta forza da farcela comunque. Hai quella sensazione nel tuo sangue, tipo, forse sì? Possiamo?
Stavamo correndo, giocavamo come animali, dando tutto ciò che avevamo. Proprio come nel 2012, in campo stiamo urlando, “Andiamo! Dai! Dai!”.
Poi, alla fine, all’82’, Manolas segna il terzo gol. Incredibile.
Ho visto la partita il mattino dopo, e sembrava che avremmo potuto segnare cinque o sei gol facilmente. È strano dirlo quando stai giocando contro il Barcellona, ma non è stato un miracolo. Non avevano davvero molte possibilità. Da parte nostra è stato un calcio da maestri. Siamo stati tatticamente perfetti.
Eravamo morti, e poi siamo tornati alla vita. Può succedere a Manchester e a Roma. Può succedere ovunque. Questo è il calcio».