E alla fine, vent’anni dopo l’Aprile di Moretti, si scopre che Massimo D’Alema può dire qualcosa di romanista e insieme di sinistra, parlando di due popoli uniti da un’analogia, «noi che non siamo abituati a vincere le partite importanti, noi addestrati alla sofferenza e impreparati a gioire. Nella memoria ci restano le sconfitte, con la paura che ci siano sempre dei rigori da sbagliare in una finale di Coppa dei Campioni». Nella città delle polemiche per la manifestazione antirazzismo in cui il Pd scelse di non sfilare dopo la sparatoria di Traini a febbraio, da leader defilato D’Alema parla di calcio e del suo amore per la Roma a “Overtime”, festival del racconto e dell’etica dello sport, presentando il libro del giornalista Rai Francesco Repice La sera dei miracoli.
Una serata da conferenziere del pallone, la politica è fra le righe: «Guardo con invidia la nazionale francese, pieni di neri e maghrebini. Hanno portato la forza delle loro radici. Vogliamo entrare in questo nuovo mondo o diventare una nazione di serie B?». Ora che il pallone è per tutti la sola ideologia del post-ideologie, D’Alema scrive analisi per la sua rivista e fa il presidente onorario del Roma club Montecitorio, «perché non è volgarmente elettiva, non devi fare la campagna elettorale, è una carica ereditaria concessa a vita. A me l’ha lasciata Giulio Andreotti. Consegnò alla Roma le sue ultime volontà. Ma nel discorso di insediamento, considerata la personalità del predecessore, feci presente che non possiamo essere sicuri che sia morto. Se dovesse tornare, il posto è suo».
Lo scudetto a Roma? «È sempre arrivato con guide nordiche, prima Liedholm e poi Capello, uomini freddi, con il carisma giusto per non farsi travolgere dal caos del mondo romano. Una squadra di calcio ha bisogno di un capo», mentre il Partito democratico «di un allenatore bravo che avrei in mente e gli farò il favore di non nominarlo. Se qualcuno pensa che gli italiani andranno al Nazareno ammettendo di aver sbagliato, può aspettare 2000 anni». Parla dello stadio della Roma come di «un progetto che mi dà l’impressione di essere finito, mentre a Madrid il Comune rese l’intera zona intorno al Bernabeu edificabile, per aiutare il Real. In Italia, se vuoi fare una grande squadra, si mettono tutti d’accordo nello spezzarti le gambe, non solo nel calcio.
Pallotta? Una campagna vendite discutibile. Non siamo quelli che possono comprare Ronaldo, ci siamo abituati. Ho ammirazione per la Juve ma, quando gioca, tifo sempre per gli altri. Cossutta mi fece simpatizzare per l’Inter dicendomi che si chiamava Internazionale. Del Milan mi piace Rivera. Sono stato l’unico a metterlo in difesa, facendolo sottosegretario nel mio governo. Uno serio. Del suo 4-3 alla Germania diceva: ho messo solo il piede, fece tutto Boninsegna».