Marco Bellinazzo, hai letto il bilancio della Roma in via di approvazione? In generale credi che la situazione sia migliore o peggiore rispetto a un anno fa?
«Credo che sia decisamente migliorata rispetto a un anno fa. Innanzitutto perché è aumentato il fatturato operativo, al netto delle plusvalenze. È vero che nei 250 milioni ce ne sono 98 della Champions, ma anche quest’anno dalla competizioni europea arriveranno tanti soldi comunque perché sono aumentati i premi, da 1,2 a 2 miliardi. E in più la Roma ha decisamente migliorato gli introiti da sponsorizzazione. Poi la campagna trasferimenti di questa estate è stata funzionale a risolvere un problema che resta atavico nella Roma, e cioè che il costo della rosa è sempre più alto dei ricavi strutturali. Nel 2018, il costo è 216 milioni tra ingaggi e ammortamenti. Ma avendo fatto acquisti importanti, e cessioni più onerose, il costo della rosa è sceso e così è stato mantenuto l’equilibrio. E poi c’è un altro parametro chiarissimo».
E cioè? «Nel 2017, il rapporto tra i ricavi e l’indebitamento era 109%, oggi è 79%. È un miglioramento di quasi il 30%. Adesso è un rapporto sano».
Esatto. Facevamo l’esempio del padre di famiglia con un aumento importante e un nuovo debito, più basso, cui far fronte. Sarà sicuro un uomo più ricco anche se più indebitato.
«Certo. Poi dipende anche dal tipo di debito nuovo che fai. Se è un investimento ad esempio va sempre considerato in positivo. Tutte le aziende sono indebitate. Per la Uefa questo debito è fisiologico quando il rapporto tra debiti finanziari e ricavi operativi è 1:1. Ora la Roma è persino al di sotto, è all’80%».
Ma perché l’indebitamento è aumentato? «Tra ciò che incassi e ciò che spendi hai ancora uno squilibrio di 25 milioni. Quindi o aumenti il capitale o ricorri al prestito. L’aumento di capitale era ancora in corso, ma c’era un fabbisogno fisiologico di ulteriore liquidità».
Secondo te la Roma fa uso smodato del “player trading”? «Io lo definirei un uso necessario per non sforare i parametri del fair play finanziario dopo il settlement agreement. Ora la Roma è fuori da questi vincoli e potrà tornare a fare riferimento al triennio, avrà maggior operatività».
Perché Lazio e Napoli riescono a trattenere i loro migliori talenti nonostante le offerte? «Proprio perché finora hanno avuto più margine nella gestione dei parametri del fair play».
Si può dire che i loro presidenti tengono di più al bene dei loro tifosi e delle loro squadre? Ti convince questa visione? «Assolutamente no, senza contare che magari molti tifosi di Lazio e Napoli pensano dei loro presidenti quel che qualche tifoso della Roma pensa di Pallotta. In realtà il problema nasce da una visione antiquata, con la figura del presidente mecenate rispetto a un presidente che deve fare business. Ma il business si può fare per tornaconto personale o per migliorare le prospettive dell’azienda in una visione imprenditoriale moderna. Da che mi risulti, Pallotta non ha mai preso dividendi dalla Roma. Lotito finora con le sue aziende ha guadagnato 30 milioni fatturando servizi alla Lazio, senza mai mettere un euro. De Laurentiis dal canto suo in emolumenti dalla società ha preso qualcosa come 25 milioni di euro tra lui e i suoi familiari. Se le cose le guardi oggettivamente Pallotta è l’unico che ci ha messo soldi suoi. E ha fatto delle scelte che potevano anche essere più drastiche, preferendo invece andare in rosso ogni anno, beccandosi anche le sanzioni dell’Uefa, pur di mantenere alto il livello della competitività della squadra, consentirle di andare in Champions e attivare un circolo virtuoso. Il problema di molti club italiani è che i ricavi crescono poco, ma qui entriamo nel discorso dell’industria calcistica italiana che non si è sviluppata in questi anni».
E tu ne hai parlato diffusamente nel tuo libro “La fine del calcio italiano”. Tornando al bilancio: perché la perdita netta consolidata è inferiore mentre il patrimonio netto consolidato è peggiorato, da -88,9 a -105,4? (…)
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