La sua ultima partita in Serie A da allenatore l’ha vissuta all’Olimpico, contro la Roma. Bruno Bolchi – 21 febbraio 1940 – ha vissuto una vita nel calcio. Una vita vera e propria perché cinquant’anni di professionismo non li possono raccontare molti addetti ai lavori. Lui sì. Da calciatore arrivò in Nazionale e da allenatore ha lavorato in tutte le categorie con ottimi risultati, girando un mare di squadre tra nord e sud, Genoa compreso. “Ora faccio il nonno e il pensionato, l’età mi permette questo. Ma sto benone, la salute non manca”. E la memoria non difetta. Ricorda ogni dettaglio del passato, chiede di salutare il suo ex giocatore Alessio Scarchilli (“L’ho avuto a Lecce. Mi dicevano che i romani lavoravano poco, lui era sempre sul campo e non si risparmiava mai”). Un tuffo nei suoi trascorsi, fino all’ultimo atto datato 2007, Roma-Messina 4-3. “Lo ricordo bene, quel giorno…”.
Fu il giorno di Totti, che con una doppietta, ottenne in seguito la “Scarpa d’Oro”… “Una partita emozionante, con sette gol e una bellissima atmosfera sugli spalti. Lo stadio era pieno, tutto colorato di giallorosso. Noi eravamo già retrocessi, ma tenevamo a fare una bella figura e per poco non gli rovinavamo la festa. Prima della gara andai sul terreno di gioco e l’atmosfera di festa quasi mi commosse. Poi, fui contento che Totti vinse quel riconoscimento così prestigioso. Era il giusto tributo a un campione straordinario. E io felice di aver coronato la mia carriera in un palcoscenico così bello e prestigioso”.
Da allora, è rimasto ai margini del calcio… “Mi godo la pensione e una vita più tranquilla. Non mi lamento, il calcio lo seguo in tv. Però non mi manca. Anzi, ci sono pure troppe partite in televisione…”.
Troppe? “Sì, tante davvero. Una volta c’era una partita da seguire e quella la vedevi con grande partecipazione. Oggi, dal venerdì al lunedì, si gioca sempre e quasi quasi ci si annoia. Anche perché parlano sempre delle stesse cose, sottolineano ogni volta gli stessi concetti”.
Ovvero? “Si parla troppo dei moduli. Del 4-4-2, del 4-3-3 o del 3-5-2. Sia chiaro, la tattica è importante, ma non è tutto”.
Cos’altro c’è, allora? “Ricordi sempre che una tattica fatta bene, uno schema riuscito, è possibile solo se uno ha in squadra ottimi giocatori. Sono loro che vanno in campo e sono loro a determinare certi movimenti durante la partita. L’allenatore deve pensare ad altro”.
Spieghi… “Il tecnico ha una percentuale altissima nella buona riuscita di una stagione, ma ha il compito di preparare la squadra fisicamente al meglio e di mettere i giocatori nelle condizioni di rendere al massimo. Avere a disposizione un gruppo di venti ragazzi non è semplice. Devi capirli, entrare nella loro testa e scegliere il momento migliore di ognuno di loro. Chiaramente, poi, viene anche la tattica. Ma non può essere l’unica variante da considerare quando si parla di un allenatore”. Però – ad esempio – Guardiola è sulla bocca di molti soprattutto quando si vuol sottolineare l’aspetto tattico.
“Lui ha basato il suo calcio sul possesso palla. E fa anche bene. Però, le chiedo, qual era il risultato quando allenava il Barcellona?”.
Qual era? “Che davano palla a Messi, saltava due o tre difensori, e faceva gol. Stessa cosa se prendeva palla Iniesta e metteva un attaccante in porta dopo una serpentina. Se fai il possesso palla, ma senza risultati, ti addormenti e non vai da nessuna parte. Bisogna adattare il tutto ai calciatori. Le faccio un altro esempio”.
Prego… “Il Napoli in avanti e a centrocampo ha giocatori perlopiù rapidi, scattanti, brevilinei. È giusto adattare la squadra sulle caratteristiche di questi singoli. E il Napoli gioca bene. Cosa diversa, se hai un attaccante alto, grosso e potente, è più giusto mandare il pallone dalle sue parti. La valutazione dell’organico è un aspetto fondamentale per un tecnico”.
Del momento poco positivo della Roma che idea s’è fatto? “La Roma in questo momento è un terno a lotto e se dovessi darle un voto, direi “non giudicabile”. Le ultime partite non sono state positive, ma il potenziale della rosa è da prime posizioni. Deve passare questo temporale – diciamo – magari facendo uno o due risultati positivi. Solo così”.
Magari a partire da domenica, contro il Genoa. Il suo Genoa. “L’ho allenato tra il 1999 e il 2001. Subentrai in corsa facendo un ottimo girone di ritorno. La stagione successiva la iniziammo con tutti i crismi della serietà, andando a prendere giocatori strategici per determinati ruoli. Invece di trarne beneficio, finimmo con una crisi di risultati. I misteri del calcio. Poi, mi faccia aggiungere un’altra cosa…”.
Dica… “La piazza di Genova è fantastica, si respira calcio. Però quando le cose non vanno bene c’è una frangia di tifosi – una minoranza – che non aiuta particolarmente la squadra. E quando i giocatori vanno in campo, vanno con la paura di sbagliare. Caso contrario, quando il rendimento è positivo, questa parte di tifosi ti alza e ti aiuta anche più del dovuto. Tuttavia, tornando al presente, mi auguro che la Roma inizi a vincere qualche partita perché merita di stare più in alto e lottare per la zona Champions”.
Le ha mai dato fastidio il soprannome “Maciste”? “No, assolutamente. Me lo sono portato appresso per tanto tempo, da quando avevo ventuno anni. Me lo diede Gianni Brera. Giocavo nell’Inter ed ero particolarmente prestante fisicamente. Alto 183 centimetri e pesavo 83 chili. Eravamo nel periodo del post seconda guerra mondiale, io ero un’eccezione tra i miei coetanei molto più esili. Sono stato “Maciste” per tutta la vita”.