Un fulmine che colpisce, come quello del Commando. Chi è che salendo quei gradini, mentre si schiude un pezzetto dopo l’altro uno scorcio sempre più ampio di prato con gli spalti intorno, non ripensa alla prima volta? Alla prima bocca spalancata. Al primo sguardo riempito di meraviglia dallo spettacolo di colori. Al momento esatto in cui gli occhi sono stati rapiti e si è capito che sarebbe stato per sempre. È la prima immagine, la consegna volontaria a un mondo che da quel momento in poi risulterà familiare, eppure sempre emozionante.
Poi c’è il primo suono, perché ogni senso ne richiama un altro per permettere un tuffo perenne in quelle suggestioni che ripercorrono luoghi e momenti. È la liturgia laica che diventa sacra, perché ci si sente parte di qualcosa di più grande rispetto a noi stessi. Perché si entra «a far parte di una grande famiglia», anche se gli anziani nemmeno lo sanno. E quel primo suono, che fa vibrare fino al più profondo dei meandri per non schiodare più da lì, non può che essere un coro. Migliaia di voci all’unisono e i brividi che pervadono ogni singola cellula. «Quando al ciel si alzeran le bandiere». Per tutti i nati prima degli Anni 90 quel suono ha un nome solo: Commando Ultrà Curva Sud. E per chi non ha avuto la fortuna di viverlo di persona, rappresenta comunque il legame ancestrale con il tifo. Sotto pelle, impossibile da recidere perché chiunque nasce romanista ce l’ha iscritto nel codice genetico. Il Cucs è parte del nostro dna collettivo, esattamente come Italo Foschi e i pionieri di Testaccio, la grinta di Ferraris IV e De Rossi, la classe di Bernardini e Falcão, i gol di Amadei e Pruzzo, il talento sconfinato di Conti e Totti, il cuore di Rocca, la fascia eternamente al braccio di Di Bartolomei. (…)
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