Non ama rilasciare interviste, ride poco e prende sul serio anche un’amichevole. Ama il pallone, le sue origini, la famiglia, il lavoro, vincere le partite. Uno dei calciatori più diretti e sinceri si è raccontato in un’intervista con asroma.com. Ecco chi è Aleksandar Kolarov.. .
Partiamo dall’inizio. Chi era Aleksandar da bambino? “Un bambino come tutti gli altri. Ovviamente vengo da un Paese come la Serbia, dove non c’erano molte possibilità visto il periodo in cui sono cresciuto. Per questo il pallone era un’ossessione, non solo per me ma anche per tutti i miei amici. Dopo un po’ è diventato un sogno, già da piccolo ero convinto che sarei arrivato in alto”.
Quando hai capito che avresti fatto il calciatore? “Gioco da quando ho sette anni, poi a 17 anni ero al Cukaricki Stankom e sono passato dalla Primavera alla Prima Squadra. Ho cominciato a fare sul serio e dovevo scegliere se continuare a fare il calciatore o continuare la scuola: ho preso la strada del pallone, ma dopo ho proseguito comunque gli studi come potevo. È lì che ho capito che il calcio sarebbe stato davvero il mio futuro”.
C’è un giocatore al quale ti ispiravi o che ammiravi? “Tutta la mia generazione guardava agli idoli della Stella Rossa, quelli che vinsero la Coppa dei Campioni nel 1991. Io adoravo Mihajlovic e mi ispiravo a lui. In realtà ho sempre ammirato i calciatori offensivi e tecnicamente forti, non mi interessavano i terzini. Mi piaceva molto Lampard, con il quale sono riuscito a giocare al City, e anche Gerrard. Tra quelli della Serie A da noi era molto famoso Ronaldo in Fenomeno, un idolo per tutti, anche Maldini per la classe che aveva. E poi Totti, quando la Roma vinse lo Scudetto”.
Hai sempre giocato come terzino? “No, principalmente ero ala: da terzino ho iniziato con la Primavera. Per questo ho il numero 11. Da più piccolo ero anche centrocampista o mezzala sinistra. Avevo già un tiro potente e in quelle categorie faceva la differenza questo dettaglio: i portieri erano bassi e bastava tirare forte e alto per scavalcare la barriera”.
Chi ti ha insegnato a calciare le punizioni? “Mi è sempre piaciuto, fin da quando ero bambino. La potenza ce l’ho sempre avuta, ma le punizioni non si insegnano, si allenano. Io mi alleno tanto. E ogni tanto faccio qualche gol bello. Ma è solo allenamento”.
Qual è il consiglio migliore che hai ricevuto in carriera? “A un ragazzo puoi dire tutto quello che vuoi, come all’uomo, ma finché non vai contro un muro non le realizzi certe cose, devi capirle da solo. Io credo sempre nel lavoro e nell’onestà. Devi presentarti bene al campo di allenamento, con la motivazione giusta e con la disciplina. Non basta alzarsi una mattina e dire “dai, oggi sono calciatore”, bisogna pensarlo sempre, anche nei momenti meno belli, perché è lì che serve andare più forte”.
Quanti anni avevi quando è iniziata la guerra nel tuo Paese? “Avevo 14 anni quando è cominciato tutto nel mio Paese e ricordi molto vivi di quel periodo. Dopo due o tre giorni di paura, purtroppo, ti abitui che la guerra resta lì, non se ne va. E tu puoi fare tutto quello che vuoi, ma se quelli da sopra lo decidono sei fuori. Quindi abbiamo iniziato a vivere una vita regolare, non si andava a scuola e per noi era tanto, perché significava avere più tempo per giocare a pallone. Lo facevamo per strada, di sera c’erano le sirene e ci rifugiavamo, era il segnale che gli arei stavano partendo dalle basi. Poi è arrivato il momento in cui neanche le sirene ci facevano più effetto e dopo un mese di guerra rimanevamo fuori a giocare, fino a mezzanotte”.
Quanto ha influito sulla tua vita quel periodo? “È stata un’esperienza che ha fatto crescere in fretta tutti i ragazzi della mia generazione, siamo diventati uomini prima”.
Qual è la persona con cui hai condiviso maggiormente questa esperienza? “Mio fratello Nikola. Stavamo sempre con il pallone tra i piedi. E qualche volta ci siamo fatti anche male. Ci piaceva tanto un gioco, partivamo dai due lati opposti della stanza, mettevamo un pallone al centro e gli andavamo contro correndo, per vedere chi vinceva il contrasto e chi era più forte fisicamente. Una volta gli ho rotto la clavicola. Mentre lui mi ha rotto una mano”.
In molti ti descrivono come serio e burbero: vuoi smentire questa voce? “Non c’è niente da smentire, io sono serio. Sono il primo a scherzare, se serve, ma ci sono i momenti in cui non si può. Non mi piace scherzare in campo. Ovviamente ci sono allenamenti in cui ci si diverte di più, ma quando si lavora si lavora, non mi piace quando uno sottovaluta gli allenamenti: lì mi incazzo proprio”.
Quando torni a casa però un sorriso lo farai… “Io rido sempre, tranne quando sono nervoso: capita a tutti. La cosa che non mi piace è una: siccome sono un personaggio noto e sono un calciatore, qualcuno si prende troppa confidenza con me se mi incontra per strada. E io mi chiedo: ma ci conosciamo? Sarà anche un mio difetto, ma sono fatto così”.
Il calcio però sembra darti tante emozioni… “Per me, visto che ti alleni tutta la settimana, non c’è una cosa più bella della vittoria, al fischio finale mi sento volare, mi sento più libero. Quando non vinciamo sono teso e non riesco a dormire. Noi lavoriamo per questo. Sono sempre contento dopo un successo, tutte le volte, mi basta vincere contro una squadra di terza categoria per provare una sensazione incredibile”.
Qual è il campo più difficile sul quale hai giocato in carriera? “Ci sono tanti campi caldi. Anfield è molto difficile a livello di ambiente. Tutte le partite più importanti le senti da solo, non serve la cornice a ricordarti che sono difficili. E dopo un po’, con l’esperienza, la pressione dei tifosi la senti sempre meno, però”.
Chi è il tuo migliore amico nel calcio? “Ne ho tanti, con molti di loro ci sono cresciuto. Non vivendo più in Serbia, la vita mi ha diviso con molti di loro. Il mio migliore amico è Dorde Rakic, mi ci sento spesso, ha giocato in Italia alla Reggina, in Germania e in tante altre parti del mondo. Edin (Dzeko, ndr) lo conosco da tanti anni ed è uno dei miei migliori amici. Daniele (De Rossi, ndr) lo conoscevo prima, ma ora che ci gioco insieme e ho approfondito la persona lo ritengo tra i miei migliori amici. Ho un ottimo rapporto anche con Company, del City. Ma la vita è così, spesso ci si allontana”.
Giocare in Premier era un obiettivo importante per la tua carriera? “Avevo dieci anni e quando guardavo il calcio inglese in televisione già dicevo a mia madre “io andrò a giocare lì un giorno”. Quando poi sono andato al Manchester City l’ho chiamata e le ho detto “hai visto che avevo ragione?”. Lei mi ha risposto “te mica sei normale…”.
Cosa vuol dire per te indossare la maglia della Serbia? “È un orgoglio, come credo lo sia per tutti i calciatori di ogni Paese. Io ho fatto più di 80 presenze in Nazionale e sono capitano, quindi sono certo della convocazione. Eppure mi sento sempre fiero quando arriva la chiamata, è un’emozione tutte le volte. Quando non sentirò più niente, smetterò di giocarci. È una cosa che devo al mio Paese. Noi non andiamo lì per soldi, non siamo pagati, ma è un orgoglio. E finché provo qualcosa ci sarò”.
Quanti tatuaggi hai? “Ne ho uno, ma è enorme. Volevo farlo, sette o otto anni fa ho chiamato un mio amico e abbiamo deciso mentre lo faceva cosa aggiungere. Mi chiedeva “ti piace questo?” e inserivamo un dettaglio. Non ha un significato particolare. Ora non lo rifarei, ma ormai è lì”.
Al tuo arrivo a Roma si è parlato tanto del tuo passato alla Lazio: poi è arrivato quel gol a Bergamo alla prima di campionato. Cosa hai pensato dopo aver segnato? “Quando ho ricevuto la chiamata della Roma non ho mai avuto dubbi, anche perché già conoscevo la piazza e gli eventuali problemi. Ma sapevo che lavorando bene e facendo il mio mestiere non avrei fatto fatica in questa avventura. La punizione segnata alla prima partita è stata una bella spinta. Io non mi guardo mai indietro, so che a qualcuno inizialmente il mio passato alla Lazio ha dato fastidio, da una parte e dall’altra. Questo però fa parte del calcio e dell’ambiente di questa città. Ognuno ha la sua opinione ed è libero di esprimerla”.
Che consiglio daresti a un ragazzo che sogna la carriera da professionista? “Essere onesti con se stessi. Tutti i genitori vogliono bene ai figli, ma alcuni esagerano. Io sono stato fortunato, perché mia madre non capiva niente di calcio e mio padre non giocava. Ho fatto il mio percorso da solo. Oggi appena uno fa un gol a dieci anni, la mamma e il papà sono i primi a dire “questo è più forte di Totti e di De Rossi”. È sbagliato. Se mio figlio domani vuole fare il calciatore ma non è capace, sarò io il primo a dirgli che è scarso, serve la verità. Ce ne sono tanti di ragazzi bravi, ma a quindici o sedici anni non sono diventati già giocatori forti, c’è tanta pasta ancora da mangiare per crescere. Serve onestà con i giovani e loro devono essere bravi a lavorare tanto. Faccio un esempio. Nicolò Zaniolo è un ragazzo dal futuro top. Mi piace come si comporta, è serio e lavora. Lui sì che ha la testa giusta. Ma se dovessi vederlo volare troppo, sarei il primo a tarpargli le ali. Per il suo bene”.
E con i più grandi come ci si comporta, invece? Prendiamo Edin Dzeko, con una grande carriera alle spalle ma in passato criticato spesso per alcune prestazioni. “Su lui mi sono espresso già e non parlavo dei tifosi della Roma, ma in generale. Magari ne avessimo altri tre o quattro come Dzeko. Per Edin parla il campo. Ci sono i calciatori e i giocatori. Edin è un giocatore”.
Hai pensato la stessa cosa quando hai sentito dei giudizi sui nuovi acquisti? “L’equilibrio serve sempre, ma in questa città non c’è e lo sappiamo. Ieri era il compleanno di Patrik Schick, sai quanti anni ha? Ventitré! E è arrivato qui ne aveva 21. È giovane, tanto giovane. È un ragazzo. Ora sta bene fisicamente e speriamo che faccia tanti gol. Il tempo serve a quell’età. Non è come uno come me, ho 32 anni, ho esperienza e il giudizio può essere diverso. Come Schick ce ne sono tanti in squadra, che prima erano considerati scarsi, ma che ora si stanno esprimendo al meglio e sono veramente bravi”.
De Rossi è il Capitano di questa squadra: che valore ha un giocatore come lui, anche in questo periodo di assenza dai campi di gioco? “È fondamentale. In carriera ne ho visti pochi così tifosi e così attaccati alla squadra in cui gioca. Io ora do tutto per la Roma, ma non posso mai dire di essere più romanista di De Rossi. Non ho mai visto uno così attaccato alla maglia. Lui è fondamentale nello spogliatoio, anche quando non gioca. E ora che sta tornando in campo si sente subito”.
È vero che odi rilasciare interviste? “Sì, è vero”.
Ne facciamo un’altra prima della fine della stagione? “Questa non mi è dispiaciuta, ma vediamo. Non lo so”.