Jorge Luis Borges sosteneva che gli americani del nord non siano in possesso di una propria etica, per il semplice fatto (ad essi non ascrivibile) che la loro storia non glielo permette. Per sopperire a questo hanno creato Hollywood. Ma, nel loro piccolo, anche gli americani del sud ricorrono spesso a situazioni di etica indotta. E il calcio, come il tango, non sfugge a questa classificazione.
La nostra rubrica ha un taglio decisamente romanista, ma è pur sempre destinata a chi ama il calcio. E non solo. E per chi ama il calcio, e non solo, questi sono pur sempre giorni particolari. E’ qui che entra in gioco anche il tango, inteso come forma di espressione popolare e geograficamente identificabile. Il 30 ottobre non passa praticamente mai sottotraccia da queste parti. Perché è il compleanno di Diego Armando Maradona. Un solco orario che veniva varcato dalle immagini del gol decisivo di Gonzalo Higuain contro il Napoli, la sua ex squadra. O meglio: l’ex squadra di entrambi.
Diego Armando Maradona non sarebbe mai andato alla Juventus. E’ una sensazione che lui stesso ha confermato nel video di sabato sera, con quel vestito mediamente inguardabile ma molto stiloso, ringraziando i napoletani per i tanti auguri di compleanno ricevuti. Higuain invece si, e per il gioco dei grandi numeri era quasi scontato che avrebbe segnato. Come fa praticamente quasi a tutti. E’ curioso che lo faccia scoccando un dardo potentissimo di sinistro. Il pallone fermo, nessun giro. Come avrebbe forse fatto il Pibe de oro. Ma Diego Armando Maradona non sarebbe mai andato alla Juventus.
La fenomenologia di Maradona passa probabilmente dall’inizio del testo di La vida tombola, una canzone che Manu Chao scrisse nel 2008 appositamente per Maradona for Kusturica, il film che Emir Kusturica girò a Napoli su di lui: “Si yo fuera Maradona, viviria como el”. Non sono necessarie grandi traduzioni. Anche oggi, a 56 anni, non si tira indietro dal dire che il suo Napoli a questa Juventus avrebbe fatto 4 gol. Non ci sono controprove attendibili, certo i valori tra i partenopei di oggi e di allora sono diversi.
Maradona ha sempre avuto il gusto delle dichiarazioni stravaganti. Ce n’è una che è rimasta nella storia, ma non nel versante più europeo del termine. Bisogna tonare a un periodo transitorio piuttosto importante suo e della Nazionale argentina. Quasi che le due cose avvenissero in simbiosi. Non vestiva la maglia dell’Albiceleste dalla finale di Italia ’90, quando la Germania trionfò allo Stadio Olimpico. Nel marzo 1991 arriva la squalifica per doping. L’anno dopo il Napoli lo cede al Siviglia. La critica sosteneva che non fosse in grado di giocare neanche a golf. Intanto fa 5 gol e 12 assist a colleghi del calibro di Davor Suker e un giovanissimo Diego Simeone.
Il cui nome è continuamente associato alla panchina di un’Inter che perde anche contro la Sampdoria e stenta a trovare la giusta continuità. La stessa cosa che succedeva all’Argentina di allora. Vince la Coppa America del 1993, battendo il Messico in finale con una doppietta di Batistuta, ma rischia di non qualificarsi per USA ’94. Serve Diego. Serve lui e il carisma che tutti gli hanno sempre riconosciuto, la velleità insolita di riuscire a migliorare anche le prestazioni dei suoi compagni.
Però bisogna trovargli una squadra. Meglio in patria. La collocazione naturale di Maradona in Argentina ha uno e un solo nome: Boca Juniors. Si doveva trovare una società amica. Non è probabilmente un caso che quello riconosciuto come il più grande calciatore della storia e la città che per definizione è intesa come “quella del calcio” siano entrambi argentini. E che i loro destini, seppur per poco, si siano incrociati. A Rosario o sei del Rosario Central o del Newell’s Old Boys. Essere canallas o leprosos va oltre una fede calcistica, entra nella vita di tutti i giorni. Maradona va a giocare nel Newell’s Old Boys, e al suo arrivo viene accolto da alcuni giornalisti. Uno di loro gli dice di essere onorato di incontrare, appunto, il più grande calciatore della storia. Maradona risponde: “Sin embargo, el mejor jugador ya jugó en Rosario y es un tal Carlovich”.
Qui forse una traduzione basica può aiutare: dice che non è così, che il più grande ha già giocato a Rosario. E si chiama Tomas Felipe Carlovich, detto El Trinche. Lo sgomento generale è comprensibile, anche perché i primi a non conoscerne l’esistenza sono proprio gli almanacchi. Perché El Trinche è la classica leggenda tramandata. Parlata ma reale. Nato nel 1949, figlio di un emigrante jugoslavo, poche presenze nel calcio che conta ma talento periferico spropositato. Si diceva che il prezzo dei biglietti aumentasse o diminuisse a seconda della sua presenza o meno. Ma purtroppo non c’è una minima traccia visiva del suo sinistro incantato. Non gli interessava, in poche parole, coltivare le sue straordinarie capacità. Aveva tutto a Rosario, e a lui bastava quello e poter giocare a pallone.
Meglio perdersi nell’ennesima storia di calcio romantico piuttosto che affrontare il capitolo relativo a Empoli-Roma. Torna la rabbia solo a nominarla. Se nella nostra storia avessimo vinto la metà delle partite lasciate contro squadre che faticheranno nel corso della stagione a raggiungere la salvezza (auguro ovviamente ai toscani di farcela, ma è giusto analizzare le cose da punti di vista oggettivi) forse avremmo almeno una stelletta sulla maglia. Forse basterebbe poco per arrivare a metterla. Invece niente. Nel turno che sulla carta doveva esserci favorevole, torniamo a 5 punti dalla Juventus. Appena dietro abbiamo un Milan che batte di misura e senza meritare neanche tanto il Pescara. Con il classico 1-0, quello che ancora stentiamo a riconoscere e apprezzare.
L’unica volta che Luciano Spalletti giocò contro Maradona non era nell’Empoli, ma nello Spezia. Sul campo neutro di Livorno vinse il Napoli, 1-3. Era l’agosto 1988, un turno di Coppa Italia. E’ il campione il primo a cui pensi quando ce n’è bisogno. Anche Spalletti si sarebbe affidato a Totti domenica. Probabilmente. Se l’avesse avuto a disposizione, per sbloccare una situazione che improvvisamente si era andata a complicare, nessuno si è spiegato neanche come. Non è una giustificazione, dovevano e potevano bastare i presenti. E’ solo il richiamo della ciclicità della storia.
All’Argentina andò meglio. Maradona fa un paio di partite istituzionali. Una contro il Brasile, per i 100 anni della Afa. Una contro la Danimarca, vincendo ai rigori la Coppa Artemio Franchi, manifestazione che metteva di fronte chi aveva vinto la Coppa America e chi i Campionati Europei. Solo due edizioni, quella e nel 1985. E’ il momento del grande ritorno. Se vogliamo una ricorrenza più precisa, avviene il 31 ottobre 1993. L’Argentina deve giocare gli spareggi, se vuole andare ai Mondiali americani. L’avversario non è di quelli da far tremare le gambe. Si tratta dell’Australia, che era arrivata fino lì superando Tahiti, Isole Salomone, Nuova Zelanda e Canada, ma solo dopo i calci di rigore. Ma adesso c’è anche Maradona, che a Sydney manda in gol Balbo. Però finisce 1-1. Al ritorno basta un 1-0 per far passare ogni pensiero. Sapete quanti pensieri fanno passare gli 1-0?