Parafrasando la vita. Il derby è quello che succede mentre ne hai pensato un altro completamente diverso. In ogni caso, un fotoromanzo. Non potendo contare sulla certezza del gioco di squadra, il racconto del derby dovrà necessariamente spostarsi e sposarsi all’epica dei singoli, lo spessore voltaico dei personaggi, chi si accende da eroe e chi no da mammoletta, e le sfide, fisiche e immaginarie, l’uno contro uno. Le più ovvie, Dzeko contro Acerbi e Immobile contro Manolas. Lo ha detto l’altro giorno Walter Sabatini: «Ho preso Dzeko perché la Roma aveva bisogno di un nuovo eroe dopo Totti».
Così non è stato, perché non c’è e forse non ci sarà mai alla Roma la possibilità di combinare la preposizione “dopo” al nome “Totti”. Dzeko non ha mai nemmeno sfiorato l’impresa, se non quel giorno che è arrivato a Fiumicino, davanti a una folla ancora disposta a trasfigurarlo. Tra alti molto alti e bassi troppo bassi, il ragazzo di Sarajevo ha fatto fatica a oscurare anche il ricordo di Pruzzo e forse quello di Voeller. Personalità indecifrabile, quando dio biondo e quando malinconica comparsa.
Come in tantissimi ipersensibili, Edin lo è, il sintomo è la balbuzie, nella parola come nella vita, l’intermittenza con cui ti accendi, i salti umorali senza rete, tra il paradiso e l’abisso. Quello recentissimo è forse il miglior Dzeko mai visto a Roma, un superdotato di tecnica e di fisico, logorroico di bocca e di piede, bello e rabbioso, mai così leader, un insieme di John Holmes e Gary Cooper, quello di “Mezzogiorno di fuoco”.
A duellare con lui, ma sarà sera e le luci artificiali, Francesco Acerbi. Un eroe a prescindere da quello che sarà o non sarà il derby. L’uomo che martedì ha cancellato dall’Olimpico Piatek il Terribile. Disinnescato con stile e prepotenza. I tifosi laziali odiavano l’idea di aver perso uno come De Vrij. A distanza di pochi mesi fanno fatica anche a ricordare la faccia dell’olandese. Acerbi ha battuto due volte il tumore. Non ha mollato la prima volta e meno che mai la seconda, recidivo e più che mai aggressivo.
Può aver paura di Dzeko o di chiunque altro? Il male lo ha aggredito ai testicoli e i suoi testicoli, da reali a immaginari, sono diventati giganteschi. Speciali, almeno quanto quelli di Pablo Simeone, senza che lui senta il bisogno di mostrarli a uno stadio intero. Dalla malattia in poi, Acerbi è diventato un corpo mistico e una testa da condottiero, un Highlander che trascina gli altri nell’emozione dell’impossibile dopo aver trascinato se stesso.
La sua impresa è permanente, quotidiana, come il miracolo di essere vivo. Acerbi non dimentica. La memoria è il suo ferro. Lui dice ogni volta grazie a Dio, ma deve dirlo prima di tutto a se stesso. Immobile è quello che è. La rivolta contro il suo cognome, prima di tutto. E anche contro il suo nome, Ciro di Torre Annunziata, che non pare come la premessa e nemmeno la promessa di chissà quale storia. Deambula irrequieto giorno e notte, purché sia un campo calpestabile, con il suo passo a metà tra il bandolero stanco e il predatore della savana.
Immobile è James Cagney, il killer che sente l’odore del sangue. Non ha nulla della statua divina alla Dzeko, ma micidiale e cattivo sempre, come Dzeko non sarà mai. Molti tifosi romanisti non lo confessano nemmeno a se stessi, ma un pensierino all’eventuale baratto lo farebbero eccome. Lo dicono appannato di questi tempi, ma se c’è uno che non è panna, uno di cui aver paura a Trigoria è lui, Ciro di Torre Annunziata, detto anche Fame Atavica.