Pare proprio che il punto di congiunzione astrale delle fortune e dei destini romanisti si trovi qui, adesso, nel ventre dello Stadio Do Dragão, il drago di Oporto, uno di quegli stadi da figurina Panini ma uguali a mille altri nel mondo. Pronto ad accogliere anche i tremila fedeli giallorossi arrivati a sostenere una Roma zoppa e impaurita di fronte allo showdown della Champions League. O si svolta questo maledettissimo ottavo o sarà l’apocalisse e niente resterà come prima: l’allenatore Di Francesco, il direttore sportivo Monchi, tutti i giocatori da Manolas a Dzeko. Non ci sarà riparo sicuro per nessuno, e si ricomincerà tutto da capo ancora una volta. Se solo ci fosse, il presidente americano James Pallotta ci terrebbe una “conference” tutta sull’importanza di un stadio così e giammai sul senso perduto della Roma stessa. Soprattutto sull’elaborazione del lutto dopo il sabba laziale nel derby e la triste condizione di Eusebio Di Francesco il cui biglietto aereo per Oporto è stato fatto solo ai banchi di Fiumicino.
Perché ha rischiato pure di non prenderlo quell’aereo, tant’era colma la misura dopo un’intera stagione di rovesci, amarezze e risultati via via sempre più impoveriti e umilianti. Il povero Eusebio è qui almeno al suo quarto esonero evitato in extremis per grazia ricevuta: il ko di Bologna a settembre, il rovescio di Plzen contro il Viktoria in Champions a dicembre, i 7 gol presi della Fiorentina a fine gennaio, e ora questi tre gol della Lazio nel derby. Non ci fosse stato il viaggio a Oporto così vicino, probabilmente non sarebbe andata così. «Non è la mia partita, è la partita della Roma. Per un allenatore essere supportato è fondamentale, essere sopportato no». Il fragile Eusebio – il nome di battesimo che richiama la Perla Nera del Benfica, proprio in Portogallo e sul campo dei suoi rivali storici – è qui che guarda tutti i giocatori negli occhi cercando in loro la salvezza. Ben sapendo che non saranno né gli schemi del 4-3-3, del 3-5-2 o del 4-2-3-1, né gli appelli gladiatorii a confermarlo sulla panchina, bensì una fredda e sana gestione di una partita che trascini la Roma lontano da questi continui psicodrammi.
Se di tracolli così ce ne sono stati una decina e se Di Francesco è stato licenziato e ripreso per i capelli molte volte, non è perché è venuta meno la romanità, ma perché l’affidabilità di troppi è inferiore a quella che si decanta. Anche i rapporti umani cui tanto tiene il tecnico a volte se ne vanno a quel paese, Pastore ad esempio non nasconde il suo disagio e lo somatizza trasformandolo in continui acciacchi. Alla formazione che adesso si snocciola per mettere al sicuro quel fragile 2-1 dell’andata con l’esplosione di Zaniolo, si accoppia una parallela lista ufficiosa di pretendenti alla panchina. 1) Paulo Sousa, “benfiquista” ma di queste parti e dato addirittura stasera in tribuna; 2) Christian Panucci che lascerebbe il posto da ct dell’Albania per una chance da traghettatore; 3) l’aeroplanino Montella che la prima Roma americana snobbò; 4) Donadoni già abbandonato dal Bologna; 5) Ranieri, fresco del licenziamento dal Fulham, ma uomo per tutte le stagioni prontamente rientrato a Roma; 6) il guru Sarri, vera agognata destinazione finale, ma tenuto in sospeso per ora dal Chelsea.
Su questa Roma disperata, ma teoricamente anche sulla soglia di un’impresa, gira ogni notizia: da Di Francesco che si potrebbe dimettere comunque, ai pessimisti perfidi che ne augurano il licenziamento anche in caso di qualificazione, a quelli che sostengono che comunque si può fare il bis del 2018. All’andata i due gol di Zaniolo e una bella partita scacciarono l’incubo, ma quel gol di Adrian adesso pesa, eccome. Ci vorrebbe la Roma che lo scorso anno sconfisse il Barcellona, ma chissà dov’è finita. Intanto essendo rare le vittorie ci si rigira fino in fondo in questo malinconico Fado di sconfitte.