Sono successe talmente tante cose rispetto all’ultima vigilia di una partita di campionato della Roma che sembra passata una vita, ma sono solo nove giorni. Rispetto al giorno prima del derby non ci sono più l’allenatore con tutto lo staff, il direttore sportivo, il medico sociale, il responsabile dei fisioterapisti e diversi giocatori (questi non licenziati, ma solo indisponibili: l’elenco è impressionante). Una rivoluzione in sette giorni che probabilmente non si sarebbe mai realizzata se l’inadeguato Var polacco Marciniak avesse convinto il suo collega turco Cakir a rivedere l’impatto tra Marega e Schick al 120′ di Porto-Roma di mercoledì.
E questo è un paradosso, ma anche il più significativo degli elementi che raccontano la precarietà di una squadra che ieri si è ritrovata ad ascoltare la mozione degli affetti di un signore che per fortuna, come dice lui stesso, si è guadagnato con anni di ottima carriera – e un picco irripetibile – la credibilità che lo ha riportato sulla panchina della Roma dieci anni dopo. Dove si è seduto per un’ottantina di volte Di Francesco negli ultimi 20 mesi, ieri si è stagliata la figura di Claudio Ranieri, attentissimo a toccare le corde giuste, a scegliere le parole adatte. Balsamo su ferite apertissime. Ma può essere una prima inversione di tendenza: «Noi tifosi», «se stiamo in questa situazione», «abbiamo preso gol», «da solo non ce la faccio, ho bisogno dei tifosi», «i giocatori dovranno arare il campo», «se la Roma chiama io dico sì», «non ho neanche voluto sapere l’ingaggio» e via roma capocciando. (…)
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