Carlo Delfini stava in campo, sempre in campo. Guardava i ragazzi allenarsi o giocare, indossava la tuta, una maglietta, gli scarpini di una volta, aveva un fischietto in bocca e qualche pallone fra le mani. È morto ieri, forse con una sciarpa al collo. Tra i piccoli che vennero su con lui alla Lodigiani, quando il calcio a Roma era anche e soprattutto quello delle borgate (la Lodigiani fondata nel ’72 simboleggiava San Basilio), uno si chiamava Francesco Totti. Era arrivato dalla Smit Trastevere e prometteva come nessun altro, nonostante quella sua magrezza che faceva venir voglia di andargli a comprare un panino con la “mortazza”. Non sempre gli allenatori lo capivano: «Ma se po’ sapé che te frega», gli diceva papà Enzo, «mica vorrai fa’ er carciatore…!».
No, per carità. Delfini però l’aveva puntato. Volevano fargli mettere muscoli: «Ma no, per quelli c’è tempo», diceva. Totti fu uno di quelli che Carlo allevò senza clamore, come Candreva, Toni, Di Michele, perché il clamore non faceva parte del suo stile. “Checco” sarebbe presto andato via: «È questo il nostro compito: allevare e non poter trattenere», ripetono sempre i tecnici delle giovanili. È la loro dannazione. Qualche anno prima dell’arrivo di Totti, alla guida della prima squadra della Lodigiani era arrivato Alberto De Rossi.
Quando Francesco passò alla Roma nell’89, a 13 anni, sulla panchina della Lodigiani sedeva Saul Malatrasi, altro spicchio giallorosso. Delfini era sempre lì a intuire il futuro: «Mamma aveva la sua alternativa», spiegò un giorno Francesco, «o Roma o Lazio». Sappiamo come è andata. Delfini se n’è andato mentre ancora gestiva gli Under 14 della rifondata Lodigiani (ora in Prima Categoria) con i suoi modi da “pozzolana” (mista a erba) che regnava una volta nel mitico e ritrovato “Francesca Gianni”. Modi e spirito, quelli di Delfini, che ci ricordano i Mikasa e le romantiche scivolate sui “serci”. Non era ancora tempo di erbe sintetiche.