Non è questione di vena gonfia sul collo. Né di esultanze sfrenate, sfoghi rabbiosi, urla, abbracci e tutta la collezione emotiva esplosa nella notte di Marassi. Non soltanto perlomeno. L’amore lo riconosci prima di tutto dagli sguardi. E quelli di De Rossi non mentono mai. Che sia protagonista diretto o meno. Dalla tribuna alla panchina al campo la gara la vive sempre allo stesso modo, con uguale intensità. Anche se a Genova attore principale (e guida) lo è stato eccome. In quei posti davanti al mare, solo chi lo ha dentro riesce a sparigliare, dirimere l’incubo e spalancare quell’orizzonte, ricalibrando i pesi e riaccendendo le speranze.
Il Capitano segna poco, ma ha in dote i gol libera-tutti. Il 28 maggio di due anni fa ha glorificato nel modo più degno l’addio del più grande. Un anno fa, di questi tempi, ha regalato un sogno di coppe e di campioni. Sabato sera ha sollevato un popolo dalle nubi che lo opprimevano. Tanto con la rete decisiva, quanto con lo spirito giusto. Il paradigma è nella rincorsa a fine match in cui ha moltiplicato energie e velocità per andare a chiudere un’azione sampdoriana che stava diventando minacciosa, prendendo un pestone che già a guardarlo faceva male. E non solo per empatia. Altro che canto del cigno, come qualcuno implicitamente invoca da qualche tempo. In quell’episodio, come nella grinta mostrata per tutta la sfida, nell’esempio fornito ai compagni, nella leadership e sì, anche nel gol e nell’esultanza, c’è tutta l’importanza del numero 16 per questa squadra. (…)
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FONTE: Il Romanista – F. Pastore