«Volevo essere io a dirtelo e non fartelo sapere da altri. A fine stagione lascerò la Roma, ma sono orgoglioso di essere stato il tuo capitano». Anche questo in fondo è stile: avvisare i propri compagni di quello che poche ore dopo – con un tweet di primo mattino – sarebbe stato di dominio pubblico: il club giallorosso non rinnova il contratto in scadenza e Daniele De Rossi se ne va a giocare altrove. L’onda mediatica che si crea è di quelle impossibili da surfare senza restare incagliati nelle critiche. Non basta certo il grazie di Pallotta («Le porte per lui rimarranno sempre aperte con un nuovo ruolo in qualsiasi momento deciderà di tornare») a placare l’universo giallorosso che, dopo il tempestoso addio di Totti, ha perso un altro punto di riferimento. (…)
Con gli occhi lucidi, De Rossi è cortese ma inevitabilmente sincero. «Potevo andare avanti come calciatore anche un anno o due, ma qui la società è divisa in più parti e sono cose che vanno accettate». Stop. Cosa intende? Le divisioni sono nei soliti tre centri decisionali (Roma, Londra, Boston) e il resto lo fa capire nei «ringraziamenti» per Fienga e Massara, che non vengono fatti per altri («nessun rancore: magari parlerò col presidente un giorno e con Franco Baldini»).
Il senso della frattura però è altro. «Ho voglia di continuare. Secondo me sarei potuto essere importante anche facendo 5-10-20 presenze, e nello spogliatoio. Il modo un po’ mi è dispiaciuto. Mi immaginavo zoppo con i cerotti che chiedevo di smettere e loro che mi dicevano di continuare. Non è andata così, devo accettarlo e vado avanti. Io ad un calciatore come me l’avrei rinnovato il contratto per ciò che potevo dare a livello tecnico. Quest’anno quando ho giocato mi sono difeso e nello spogliatoio risolvo problemi e non ne creo. Ma come nel vostro lavoro, ci può stare: ti cacciano via e non puoi farci nulla».
FONTE: La Gazzetta dello Sport