Era sereno, serenissimo. Poi ha fatto l’errore di sdraiarsi sul letto e cominciare a leggere sullo smartphone i tanti messaggi ricevuti in meno di un’ora. Di compagni di squadra, avversari, amici. Centinaia di sms e notifiche whatsapp. Ed è crollato in un pianto disperato eppure liberatorio: aveva accumulato troppa tensione, un’infinita delusione, e quelle testimonianze erano troppo dolci e potenti, di sentimenti così perfetti.
«Voglio continuare a giocare almeno un anno», aveva spiegato in mattinata. Anche per affermare la verità e attenuare il dolore del distacco.
Non ha chiuso De Rossi con la Roma, ma la Roma con De Rossi. «L’hanno cacciato» dice il tifoso.
Daniele, trentasei a luglio, sarebbe rimasto volentieri anche a gettone se gliel’avessero chiesto per tempo, se l’avessero preparato, rispettato: ma dall’autunno scorso a lunedì la Roma è stata distratta, travolta direi, da altri problemi, altre urgenze, altre criticità, altre tensioni, altre scelte: il licenziamento di Di Francesco, le dimissioni di Monchi, la rincorsa Champions, il presente più che il futuro.
Guido Fienga, il nuovo punto di riferimento romano della società, un manager che sa poco di calcio ma molto di tutto il resto, non ha nemmeno avuto la possibilità di affrontare la decisione presa a Boston, non ha potuto evitare lo squarcio emotivo. Un contratto a presenze sarebbe stata la soluzione ideale, ribadisco, se suggerita al momento giusto. Quando, nella serata di martedì Pallotta ci ha ripensato accettando di trattenere Daniele “a partita”, era ormai tardi: non aveva fatto i conti con l’orgoglio, la sensibilità, la dignità di Capitan Passato, ormai.
Alla base della chiusura di un rapporto straordinariamente unico, che solo in parte poteva essere legittima visto che il contratto di De Rossi era in scadenza, tre fattori: quello economico (un contratto “pesante” ma che poteva essere allegerito consensualmente), quello anagrafico (i 36 anni) e quello fisico: nella stagione che sta per finire Daniele ha avuto alcuni contrattempi ma ogni volta che ha giocato ha riaffermato la propria indispensabilità.
In queste ore ho ripensato a un’altra dolorosissima separazione tra una società e la sua bandiera, ovvero quella tra la Juve e Del Piero: fu annunciata in autunno, non consumata a maggio. Dopo un primo momento di spiazzamento tanto il campione quanto la tifoseria ebbero tuttavia il tempo di assorbire il colpo. Ma quella era la Juve, questa è la Roma dove cuore e anima pesano assai più dei risultati, dei numeri. La stessa Roma nella quale, però, qualcuno disse maldestramente non troppo tempo fa: «Torneremo a vincere soltanto quando Totti e De Rossi non ci saranno più».
FONTE: Il Corriere dello Sport – I. Zazzaroni