Sta come un principe, il direttore. Claudio Fenucci, ad del Bologna, braccio destro di Joey Saputo, per tre anni lo è stato di Pallotta (e prima ancora di DiBenedetto). Là dove sono gli americani, lui c’è. L’uomo dei conti, e dei sogni: «Vogliamo tornare in Europa», confida, Claudio che di romano ha tenuto solo il nome, ormai. E’ sorridente, rilassato.
«Sono a casa, qui resterò a vivere». Si storce alla domanda, banale ma doverosa: amatriciana o tortellini in brodo? «A Bologna è tutto perfetto, funziona ogni cosa, c’è ricchezza, ordine: è in piccolo come dovrebbe essere l’Italia. Ma non mi faccia certe domande, io all’amatriciana non rinuncio».
Bologna è tutto un altro ambiente rispetto al fuoco di Roma. «Non creda. Certo, la dimensione è diversa, ma anche qui la tifoseria bolle. Nei periodi di contestazione – e ce ne sono stati – si fanno sentire, ci sono un paio di radio molto attente. A Roma ho imparato a gestire le parole, ho studiato il linguaggio del calcio, come fanno i politici nel loro mondo».
Ah, quindi Bologna come Roma. Il famelico ambiente romano che porta via tutto, sogni e vittorie… «Chiariamo subito. Non che non si vinca per colpa delle radio, i successi sono figli di altro: di una buona gestione amministrativa, di scelte tecniche corrette e di un investitore pronto a coprire le perdite».
E’ difficile colmare il gap? «All’epoca dei Sensi, la forbice con le big era meno ampia, era più facile inserirsi nel giro scudetto, lo fecero sia la Roma sia la Lazio. Negli ultimi tempi si è allargata e molte società sono soggette alla tirannia del fatturato. Se non aumenti i ricavi, è difficile competere. Ma non bisogna sempre appoggiarsi a questo, a volte serve qualche idea in più. In Italia c’è una netta connessione tra fatturato e vittoria, altrove gli incassi sono più equi. Le faccio un esempio: oggi i soldi distribuiti dalle varie competizioni europee si aggirano intorno ai dodici miliardi, ma più della metà sono finiti a soli quindici club».
Allora evviva la Superlega… «Quella sarebbe la pietra tombale. Impoverirebbe i campionati nazionali, li svuoterebbe della loro tradizione».
La sensazione che lei sia un po’ scappato dalla Roma, ancora ce l’abbiamo… «Avevo capito che era il momento di andare via».
Motivo? «Diciamo che c’erano rapporti problematici con alcuni consulenti di Pallotta (Pannes, ndi). Non avevano, secondo me, reali competenze sportive».
I suoi rapporti con Pallotta? «Per un po’ ho sbagliato a non crearne uno diretto con lui, era sempre molto filtrato. Magari sarei riuscito a fargli capire certe dinamiche italiane, l’importanza di alcune situazioni ambientali».
Pure lui, però, si fa vedere poco. Saputo è più presente… «Viene a Bologna più o meno una volta al mese. Ma non è questo il punto. Un presidente non deve stare sul posto per le riunioni o perché deve rimproverare la squadra oppure cacciare un allenatore. Deve frequentare l’ambiente per capirlo, per conoscerlo da vicino, per comprenderne le dinamiche. Insomma, per acquisire una sensibilità sulla nostra cultura dello sport, che è diversa da quella americana. Jim vorrebbe fare tanto di più per la Roma, ha grandi ambizioni, ma non vivendoci dà modo ai tifosi di non farsi capire bene. Gli avrei spiegato che per arrivare al traguardo ci voleva tempo. Che il lavoro sarebbe stato complesso, che tutto sarebbe dovuto arrivare gradualmente. Anche attraverso una comunicazione dello stare con i piedi per terra».
Lo sloganismo, insomma, non ha funzionato. Ma andiamo avanti. Capitolo Franco Baldini… «E’ un consulente del presidente. E credo che sul ruolo non ci sia nulla di strano, anzi, nelle aziende certe figure sono preziose. Poi, ci devono essere dirigenti con deleghe per decidere». E qui utilizza il calcese, in parole povere: finché consiglia bene, se interferisce nel lavoro degli altri è un problema.
Che dirigente è Sabatini? «Un genio. Un uomo complesso, che va capito e accettato. A Roma ha lavorato bene».
E Baldissoni? «Uomo intelligente, che può fare il dirigente. E’ un innamorato della Roma».
Poi c’è Fienga, che pronti via ha dovuto annunciare lui l’addio a De Rossi… «All’epoca mi stava per capitare la stessa cosa. Daniele era a scadenza, poi rinnovò».
Lo avrebbe preso a Bologna, De Rossi? «Gli ho consigliato di non restare in Italia».
E Totti? «Non è facile crearsi una figura diversa da quella del calciatore, dal giorno alla notte. Di Vaio, amico di Francesco, da noi ha smesso, ha studiato, ora può fare il direttore sportivo».
Domani arriva la Roma… «Bella squadra, sempre una grande partita. Specie per Sinisa, da ex laziale».
La vicenda Mjhajlovic vi ha prima distrutto, poi vi ha dato una grande forza… «Sinisa è un uomo eccezionale, abbiamo investito su di lui e guai a chi lo tocca. La malattia ci ha dato una bella botta, ma non abbiamo mai pensato che ci avrebbe mollato per curarsi. Lui è in ospedale, ma è sempre presente. Telefono, video, chiama si informa, è in contatto continuo con i suoi collaboratori e con noi. Siamo nelle sua mani, lo aspettiamo. Intanto è nato il Bologna United. E la nostra filosofia è we are one».
La sera di Verona è stato un impatto incredibile per voi e per il mondo del calcio… «Emozioni forti. Vederlo in panchina, all’improvviso, dopo un mese in quasi isolamento è stato eccezionale, come la settimana scorsa quando la squadra lo ha voluto salutare sotto la finestra dell’ospedale».
Ma qualcuno di voi gli ha mai detto: mister stia calmo, pensi a riposare, non faccia questi sforzi… «Provi a dirglielo lei».
Mihajlovic in estate doveva venire alla Roma. Poi? «Poi sono sceso io nella Capitale a fare le scritte contro di lui… Sto scherzando ovviamente».
FONTE: Il Messaggero – A. Angeloni