Fonseca, è vero che, se vince, non cambia i calzini?
“Sì, è vero. D’altronde tutti gli allenatori hanno delle scaramanzie. Così, quando si vince, è raro che in quella successiva si cambino i vestiti. Anche io sono un po’ così, ma non troppo”.
Lei è nato in Mozambico, che per gli appassionati di calcio significa anche Eusebio. Resiste ancora il suo mito? “Anche oggi è una leggenda. Io sono nato lì perchè mio padre era in quella sede durante la guerra, ma ad un anno sono tornato in Portogallo. Non ho grandi legami col Mozambico e non ci sono più tornato, ma da tempo desidero farlo per conoscere il posto in cui sono nato. Non mi bastano le foto, mi piacerebbe andarci con i miei genitori, che me ne parlano sempre con affetto e nostalgia”.
È tornato in Portogallo dopo la rivoluzione dei Garofani del 1974, quella che spazzò via la dittatura di Salazar. Le è rimasto un po’ di spirito “antiestablishment”? “Sì, ho una mentalità aperta. Apprezzo la libertà di pensiero e di espressione. Io tornai in Portogallo dopo la fine della dittatura, perciò sono cresciuto in una società libera. Potevamo parlare e discutere senza problemi delle nostre opinioni. I miei genitori invece sono vissuti ai tempi della dittatura e spesso mi ricordano come fossero difficili quegli anni”.
Per onorare una scommessa, quando sconfisse il City si travestì da Zorro. Perchè quel personaggio? “Mi è sempre piaciuto, forse perché combatteva le ingiustizie. Io vengo da una famiglia umile, anche se senza difficoltà economiche. Mio padre era un operaio metallurgico, mia madre una domestica, così questo personaggio che aiutava i più deboli e i più vulnerabili mi ha sempre affascinato. In più quando ero bambino era semplice ed economico travestirsi come lui. Un pezzo di legno diventava una spada, un cappello era quello di Zorro. E poi ho sempre avuto la passione per i cavalli. Lui per me era il cavaliere nero e questo ha acceso la mia fantasia”.
Segue sempre il club del suo cuore, la Barreirense? “Sì, ma oggi è tutto diverso rispetto ai miei tempi. Barreiro è la città in cui sono cresciuto, un ex centro operaio, ma dopo la decadenza del settore industriale il club ha perso prestigio. Ora gioca in un campionato minore. Ma il legame resta”.
Che tipo di calciatore è stato? Si dice che lei non avesse un grande senso dell’umorismo, ma sapesse risolvere i problemi degli altri. “A me piace ridere e scherzare per creare un ambiente in cui tutti si sentano a proprio agio. Ma proprio per il tipo di educazione che mi hanno dato i miei genitori sono stato il capitano di tutte le squadre in cui ho giocato, perché ho sempre avuto un grande senso di responsabilità. E ne sono orgoglioso. Ma è molto meglio il Fonseca allenatore che quello calciatore…”.
Quali sono i suoi riferimenti da tecnico? “Fino a 26-27 anni non pensavo alla panchina. Poi ho iniziato a vedere le cose diversamente, ero interessato a tutto ciò che facevamo come lavori ed esercitazioni. Ma in Portogallo la svolta è stata Mourinho, il più grande allenatore della nostra storia. Ci siamo parlati poche volte, ma c’è un rapporto di reciproco rispetto. Lui ha segnato una trasformazione, un nuovo modo di concepire gli allenamenti, lui e il professor Vitor Frade sono stati dei riferimenti per allenatori come me, che iniziavano la carriera. Personalmente non ho mai copiato nessuno, ma sono stato influenzato da tutti gli allenatori avuti. Su tutti due: Jean Paul, che nelle giovanili dello Sporting Lisbona ha scoperto Quaresma e Cristiano Ronaldo, e Jorge Jesus, ora al Flamengo”.
Lei è arrivato alla Roma in un momento non facile, con la tifoseria in subbuglio per gli addii di De Rossi e Totti. Ha mai pensato che con loro tutto potesse essere più facile? “Non ci ho mai pensato, quando mi è stata offerta la Roma loro non c’erano già più. Sono stati due grandissimi giocatori, è facile immaginare che se fossero qui sarebbero coinvolti nel processo e, vista la loro qualità, aiuterebbero squadra e gruppo a salire di livello. A me piace costruire il gioco dal basso e il miglior De Rossi si sarebbe integrato bene nel nostro gioco. Certo, ora è in età avanzata e non più al 100%, ma al top lo abbiamo apprezzato tutti”.
È una difficoltà in più il fatto che parte della tifoseria non ami il presidente Pallotta e che lui non venga a Roma da quasi seicento giorni? “Io da parte dei tifosi percepisco un calore molto forte. Il seguito è impressionante. Sono fantastici. Tutti gli allenatori vorrebbero questo sostegno. È vero che Pallotta non è qui fisicamente, ma s’informa ogni giorno sull’andamento della squadra. E poi oggi il calcio è cambiato, nel mondo ci sono tanti esempi di altri club in cui i presidenti vivono in altri paesi. Non credo che questo costituisca un problema per la Roma o influenzi il nostro lavoro. Pallotta non c’è, ma si sente”.
C’è una trattativa e il possibile arrivo di Dan Friedkin alla guida della società. Pensa che un cambio di proprietà potrebbe essere un problema? “Si parla molto di questa cosa, ma non influenza nè me nè la squadra. Non sono il tipo a cui piace immaginare scenari futuri. La gestione del club è affidata a Guido Fienga, che sta facendo un grande lavoro. Mi fido di lui”.
Sono divenute celebri le sue chiacchierate al telefono per convincere i giocatori a venire alla Roma: le è capitato che qualcuno le abbia detto no? “No, tutti quelli con cui ho parlato sono venuti. Cento per cento. A mio avviso è importante che un calciatore sappia quello che l’allenatore pensa di lui e come pensa di inserirlo all’interno della squadra. E poi è importante anche per me capire se questo giocatore è motivato a venire qui”.
È arrivato nella stagione più aperta degli ultimi anni. Ha l’impressione che con qualche ritocco anche la Roma possa lottare per lo scudetto? “Penso che non sia giusto creare grandi aspettative. Meglio vivere con senso della realtà. Siamo all’inizio di un percorso. C’è un allenatore nuovo, un direttore sportivo nuovo, tanti giocatori sono arrivati e tanti sono andati via. Sono soddisfatto dell’andamento della squadra, ma sarebbe ingiusto creare questa pressione. Non vale la pena fare piani a lungo termine quando la prossima partita è sempre la più difficile. Soprattutto qui in Italia, dove l’ultima in classifica può battere la prima. Comunque, ho la consapevolezza che la Roma stia crescendo”.
Il suo primo bilancio sulla Roma e sul campionato italiano? “Molto positivo, sono molto contento della squadra e della Serie A. Certo, il campionato è molto duro. Ci sono squadre e allenatori forti, ogni partita è diversa, ma dà grandi motivazioni. Di natura sono ottimista. E così penso che il 2020 possa essere meglio del 2019”.
Gli obiettivi della vostra stagione sono mutati? “No. Il primo resta quello di arrivare tra le prime 4 per andare in Champions. Detto questo non cambio idea: rafforzando questa squadra, credo che entro l’arco della durata del mio contratto (2021 più opzione di un anno, ndr), si possa vincere qualcosa. Logico, però, che anche ora si giochi per vincere. La Coppa Italia non è facile, ci aspetta il Parma e poi forse la Juve, ma ci proveremo. L’Europa League si è trasformata in una mini Champions, visto le grandi squadre che ci sono, ma di sicuro non trascureremo questa competizione”.
Dal prossimo mercato si aspetta rinforzi? “Gennaio è un mercato difficile. Eventuali rinforzi devono migliorare la rosa, non è facile. Prenderemo qualcuno se ci saranno delle uscite per alzare il livello. Petagna? ottimo giocatore, ma non per il mio gioco”.
Caso Florenzi: per via della Nazionale, al posto suo resterebbe o andrebbe via? “Non devo mettermi nei suoi panni. Lo capisco, ma quello che succede a lui con la Nazionale succede anche ad altri. Sono consapevole di quello che rappresenta per il club e per i tifosi. E’ un grandissimo professionista, non abbiamo mai avuto problemi, con lui ho un ottimo rapporto. Resta sempre un opzione tecnica, ma questo vale anche per gli altri giocatori. Io devo pensare solo al bene della Roma. Non posso pensare al fatto se Florenzi giochi o meno in Nazionale, anche se lo comprendo”.
Della città di Roma ultimamente non si parla molto bene, lei come l’ha trovata? “Io sono innamorato di Roma ma quando si è innamorati si vedono solo gli aspetti positivi, di quelli negativi non ci si accorge. Ai miei occhi la città sembra perfetta, bellissima, nonostante non abbia avuto modo di scoprirla tutta. E mi piacciono i romani. Io amo uscire, passeggiare, e la gente è sempre affettuosa. Vivo vicino a San Pietro. Ho sempre pensato di voler abitare in centro per godermi meglio la città. Conoscere la storia di un posto è una cosa importantissima. E sono soddisfatto della scelta”.
Sia sincero: pensa di restare a lungo qui? “I risultati indirizzano sempre la nostra vita, ma oltre che per la città, mi piacerebbe restare in un club che mi fa sentire a casa. La Roma è una delle società più importanti del mondo, vorrei restarci molto tempo”.
FONTE: La Gazzetta dello Sport