Szczesny ha un sorriso accattivante, uno sguardo vispo e una stretta di mano calorosa. Se esiste una serenità da numero uno, ha le sue sembianze. Ma quando si accomoda al tavolo dell’intervista, gli occhi vanno in automatico sul titolo più triste del nostro giornale: «What a tragedy» dice nel suo inglese perfetto indicando i colleghi che non ci sono più, i ragazzi della Chapecoense. Portiere leggero, ragazzo sensibile. Persona compiuta e contenta, insomma. Servono al derby di Roma personaggi così. Per niente banali, molto preparati e analitici, solo un po’ diplomatici quando l’argomento lo richiede. Ci riceve tre quarti d’ora prima dell’allenamento, pronto a entrare nello spogliatoio per una mattinata di lavoro intenso, sfoggiando un ottimo italiano.
Wojciech Sczczesny, partiamo dal nome. Lo abbiamo pronunciato bene?
«Abbastanza, si può fare meglio. Ma non temete. Faticano a essere precisi anche in Polonia».
I tifosi della Roma da subito l’hanno ribattezzata Coso, per comodità.
«E va bene così. Tutto quello che è social e non offende, è accettabile».
Come sono i tifosi, a Roma?
«Appassionati e presenti, mi piacciono. Sono diversi, ovviamente, da quelli a cui ero abituato a Londra, dove magari c’è più privacy. Ma sono carini ed educati, quando si avvicinano per una foto. Mi diverto con loro. La cosa più importante è che a Roma non giochi solo per te stesso o per una squadra. Giochi anche per far felice la gente. Il fatto di sapere che un risultato incida sulla felicità delle persone è una motivazione in più per lavorare bene».
Domenica, come nei due precedenti derby di Szczesny, tanti romanisti non andranno allo stadio.
«Sinceramente, non è il massimo per un calciatore. Quando ero all’Arsenal vedevo le immagini del derby romano in tv e mi sembrava fantastico con lo stadio pieno che ribolliva. Mi sarebbe piaciuto giocarli così, con i tifosi che riempiono lo stadio. Perciò mi auguro prima o poi di rivedere l’Olimpico pieno. Nel frattempo però noi dovremo concentrarci sul campo, non sulle tribune».
Domanda secca: la Roma è più forte della Lazio?
«Sì».
Ecco, chiarissimo.
«Me l’avete chiesto voi, domanda semplice, risposta semplice: certo».
Come si spiega allora un solo punto di differenza in classifica?
«La Lazio sta facendo un grande campionato e la Roma ha perso qualche occasione. La differenza è di un solo punto, ma dovevano essere di più. Se mi chiedete chi è più forte non ho dubbi, ma dobbiamo dimostrarlo sul campo. Spero che domenica sera i punti di differenza siano quattro».
Quale giocatore della Lazio la preoccupa di più?
«Non sono uno che teme i calciatori. Li studio, questo sì. O meglio, mi interessa capire come attacca la squadra avversaria nel suo complesso. Ho visto che Immobile, Keita e Felipe Anderson stanno andando forte. Immobile ha segnato molti gol».
Szczesny ha già vinto due derby su due.
«Beh, mi auguro di continuare su questa strada. Mi aspetto lo stesso risultato. Detto questo, l’anno scorso è stato bellissimo, me li sono goduti entrambi, si provano emozioni speciali. Ma la cosa più importante sono i tre punti e sono concentrato su questo. So che la gente ci tiene in maniera particolare. In questo senso, avendo provato Arsenal-Tottenham, posso dire che tutti i derby sono uguali. Sono gare con livelli molto alti di attesa e di adrenalina».
E allo scudetto pensa ancora?
«Certamente. Sono tornato alla Roma perché voglio vincere. Mancano ancora tante partite, tutto è possibile. Ma per il momento è meglio pensare al derby. Se lo vinciamo, saremo un passo più vicini all’obiettivo finale. Bisogna fare un passo alla volta, bisogna provare a prendere tre punti in ogni partita. Non voglio pensare troppo lontano, mancano sei mesi alla fine del campionato. Tutti abbiamo questo grande obiettivo. Ma ora conta solo domenica».
Dopo il 30 giugno rientrerà definitivamente all’Arsenal?
«Non ho orizzonti temporali così lunghi. Se penso al luglio del 2017 non riesco a concentrarmi su quello che devo fare adesso. Quindi, preferisco vivere il presente».
Nel presente la Roma prende ancora tanti gol. E’ questa la principale differenza rispetto alla Juventus?
«Noi giochiamo un calcio offensivo. Penso che siamo molto concentrati sull’attacco. Ma se non sbaglio, soltanto poche squadre hanno incassato meno reti di noi. Comunque se devo subire due gol e vincere 3-2 come è successo domenica con il Pescara a me va benissimo. Il problema è quando una rete ti costa punti, come è successo a Cagliari oppure a Firenze. La tendenza del calcio italiano è di fare molti gol, penso che sia una grande cosa per i tifosi. Da portiere ovviamente preferisco incassarne il meno possibile ma fino a quando vinciamo per me va bene!».
Dopo Torino disse che non si può vincere solo in casa se si vuole puntare in alto.
«Da allora siamo migliorati e credo che stiamo crescendo anche in trasferta. Dobbiamo migliorare, è vero, ma abbiamo perso contro l’Atalanta che sta attraversando un fantastico periodo di forma. In casa le cose non potrebbero andare meglio, siamo a punteggio pieno e sarà dura per tutti venire all’Olimpico. Dobbiamo fare un salto di qualità e trasformare i pareggi in vittoria».
Il 17 dicembre affronterete la Juve e lei dovrà neutralizzare un suo ex compagno, Pjanic.
«E’ una partita ancora lontana… Quanto a Mire, mi ha segnato già centinaia di volte su punizione in allenamento. Se azzecca il tiro giusto un portiere non può farci nulla. Gli auguro il meglio, è un grande calciatore e un amico».
A Roma, l’estate scorsa, l’ha voluta fortemente Spalletti. Quali differenze ha notato tra lui e Wenger?
«Sono due allenatori diversi che lavorano in contesti diversi e utilizzano tattiche diverse. In comune però hanno il senso della disciplina, che per entrambi è fondamentale, e l’idea che non tanti tecnici hanno».
Cioè?
«Insegnare calcio, migliorare i giocatori, oltre a puntare ai risultati della squadra. Mi sono trovato bene con entrambi, mi hanno insegnato moltissimo».
Spalletti cosa le ha insegnato?
«A giocare con i piedi. Pensate che in Inghilterra tutti dicevano che con i piedi ero scarso, e io mi occupavo essenzialmente di parare, non avendo il talento di Ter Stegen o Neuer o Van der Sar. Invece qui sono considerato bravo. Il motivo è semplice: Spalletti mi ha fatto capire che non conta la tecnica di base ma la capacità di scegliere la giocata giusta. Ovviamente ho imparato molto anche all’Arsenal, sono arrivato lì giovanissimo».
Come sta vivendo la rivalità con Alisson?
«E’ già sbagliata la parola. Non c’è rivalità tra noi, visto che tutti e due vogliamo il bene della Roma. Alisson è bravo e sta dando il suo contributo. Mi sembra che la scelta di alternare i portieri tra campionato e coppa stia pagando, quindi problemi non ne esistono fra noi».
Perché ha voluto di nuovo sposare il progetto Roma?
«Perché amo la città, guardate che cielo: il tempo è sempre bellissimo. E perché a Trigoria mi sono trovato bene con tutti. Dallo staff ai compagni. Quando i club hanno raggiunto un accordo per un altro anno di prestito, per me è stato facile decidere».
Con i media che rapporto ha? Ogni tanto si arrabbia sui social network per qualche articolo.
«Se vengono scritte cose false, io puntualizzo. Ma in generale credo di avere un buon rapporto con i giornalisti. Dei vostri giudizi però sinceramente mi interesso poco: se gioco bene o male già lo so da solo, non ho bisogno di leggerlo sui giornali».
Del giudizio di suo padre si interessa? Anche Maciej Szczesny ha giocato nella nazionale polacca.
«Lui ha stabilito un record da noi, vincendo il titolo con quattro squadre diverse. Non so chi sia più bravo però (ride, ndr). Lo vedremo alla fine della mia carriera. Ora non sono abbastanza coraggioso da affrontare il paragone».
E’ stato merito di papà se ha scelto di giocare al calcio?
«La sua influenza si è sentita, naturalmente: mi sono appassionato guardando le sue partite. Ma è stata più mia madre a credere in me, a incitarmi ad andare avanti, ad accompagnarmi agli allenamenti. Vivendo solo con lei, è stato normale confrontarmi con lei».
Ha sempre giocato in porta? «No, in realtà da bambino mi piaceva giocare in attacco. Ma ho capito subito che non era aria, con quei piedi…».