Si dice che Ettore Petrolini poco prima di morire fece una battuta. Un modo supremo per far vincere la vita. Quello definitivo. Una battuta sul letto di morte e così la morte è battuta. Gigi Proietti (il più Petrolini di tutti i Petrolini che sono seguiti a Ettore Petrolini) che se ne va il giorno del suo compleanno è sì – come hanno scritto già tanti – la mandrakata finale. Un’uscita di scena teatrale. Sicuramente semplicemente una coincidenza, omaggio del destino o scherzo del caso a un gigante della nostra cultura. Andarsene il giorno in cui si era arrivati.
Pier Paolo Pasolini ha scritto che l’inizio e la fine coincidono (si torna al punto di partenza; la ripetizione inaugurale; la circolarità del suo Edipo cinematografico eccetera), Pasolini che pure lui è morto proprio ieri ma di 45 anni fa (era il 2 novembre del 1975), Pasolini un “morto che s’è ammazzato”.
Pasolini più di ogni altro è stato l’intellettuale che ha messo in mutande l’arte, intesa come qualcosa che si produce dall’alto, in un altrove, in una torre d’avorio per pochi pseudo eletti; e ferocemente massacrato l’idea della cultura intesa come nozionismo o ostentazione borghese, roba soltanto da pelliccia e da Prima alla Scala o da circoli radical chic. Pier Paolo Pasolini è stato il primo a dire compiutamente, dal punto di vista filosofico, «nun me rompe er ca». L’ha strillato.
Gigi Proietti oltre a essere per sempre Mandrake, e quello delle barzellette che fanno davvero ridere, per me ha fatto soprattutto questo: ha portato Shakespeare a Villa Borghese e lo ha fatto come i padri “ce” portano i ragazzini la domenica mattina. Ha fatto scuole di teatro e sfornato, modellato e dato una via ai talenti. Ha studiato. Ha lavorato. Dietro a un “aho”, a un fischio maschio senza raschio, ci stanno sudore, studio, impegno, letteratura con tanti rischi.
Gigi Proietti è stato Mandrake ma anche Otello, Dumas padre e amico del Pomata fijo de ‘na mignotta. L’alto e il basso. L’aristocratico e il popolare. Lo sberleffo e il pensiero. La bocca che si apre per ridere e la fronte che si corruccia per riflettere. Un mostro teatrale.
Gigi Proietti non è solo quello che «al cavaliere nero non je devi rompe’ er cazzo» e non lo è proprio perché al cavaliere nero devi portare un certo rispetto. È un cavaliere vero.
Il Globe Theatre al centro di Roma è stata una felicissima rivoluzione. Che poi prima ancora della storia di Romeo e Giulietta, o di Iago, o di Puck, o di Rosencratz e Guildestern spediti da Amleto da qualche parte, già il solo far andare in quel teatro di legno la gente è far conoscere Shakeaspeare: il teatro elisabettiano è stato soprattutto teatro popolare, senza quarta parete, senza arco di proscenio, senza divisioni fra platea e palco, con la gente che ci si metteva direttamente ai margini o sopra al palco a vedere anche Shakespeare recitare.
E Shakespeare, il primo a mettere in discussione la fatalità e l’ineluttabilità dei Greci (gli è bastato far sorgere un dubbio a un Figlio alla solita richiesta di vendetta del Padre per allontanare questi fantasmi) è stato il tutto che ancora è, anche perché per esempio per primo portò le puttane e il loro linguaggio a corte, vicino alle regine, i porri gallesi accanto alle gemme della corona, il beone Falstaff accanto a un Re capace di vincere “con un manipolo di pochi” l’esercito di troppi francesi. L’alto e il basso. L’aristocratico e il popolare. Per questo Gigi Proietti è stato e resterà per sempre Roma.
L’ha onorata e trasmessa non solo per l’idioma o il dialetto, ma per lo spirito. Roma sta qui da prima di tutti, va saputa raccontare: non basta una parlata sguaiata, anzi Roma è tutt’altro. Roma è colta pur non volendo e non puoi non farci i conti. È il portiere di Cinecittà che Federico Fellini incontra per la prima volta quando viene qua che gli chiede «che va cercanno signori’?». E visto che qui s’è sempre trovato di tutto, tu devi saper rispondere. Altrimenti “nun me rompe er ca”. Altrimenti conta l’esistenza se devi fare finto esistenzialismo.
L’autentica arte è popolare, la cultura è semplicemente un modo di stare con gli occhi aperti in mezzo al mondo. Occhi ben aperti e puliti, questo solo si esige: per guardare la vita. Occhi belli come quelli di Gigi Proietti. La sostanza che svuota la posa, la sostanza diventata arte che è una delle definizioni pressoché perfette di Roma. Che è carne, strada, bellezza, sogno, saliva, sanpietrini, rabbia, dolore, cuore, ma sempre cuore. Per questo è stato popolare ma non populista, romanesco ma non “romanaccio”, Romanista nel senso che a Roma si è della Roma come un tratto, un costume, un dovere, una condizione, non si può essere altro.
Socrates scrisse che sognava di morire la domenica in cui il Corinthians diventava campione, gli è successo. Proietti se ne è andato dopo la partita che per tutti è stata quella dei tre tenori. Invece almeno per oggi, Dzeko, Pedro e Mkhitaryan sono King, Soldatino e D’Artagnan solo perché così Mandrake prende finalmente la tris e vince. Pensa, per sempre.
FONTE: Il Romanista – T. Cagnucci