C’è qualcosa di freddo nell’aria/che inverno non è, come cantava Sergio Endrigo. Non c’entra nemmeno l’alta quota della classifica o il – 4 virtuale tra Roma e Juve, che stasera almeno a Torino sarà anche la temperatura reale. C’è qualcosa di diverso nel rapporto tra Luciano Spalletti e Massimiliano Allegri – elencati in rigoroso ordine di freddezza – e il rapporto con la propria panchina e la propria squadra. Quello che è successo prima della sosta evidentemente ha avuto tempo di sedimentarsi: da una parte la sconfitta nello scontro diretto (1-0, gol di Higuain), dall’altra una Supercoppa già in mano, gettata ai rigori contro il Milan. Così la vigilia del ritorno in campo contro due avversari per nulla banali — il Genoa che ha travolto la Juve un mese fa aspetta la Roma, mentre il Bologna scende allo Stadium — diventa un insolito gioco di ombre. Non cinesi, almeno stavolta. Ma sicuramente ombre sul futuro: come si possono catalogare altrimenti le parole di Luciano Spalletti? «La squadra deve dare il massimo per raggiungere il massimo obiettivo. Se non vinco devo dare il posto a qualcun altro, perché come dice la società qui c’è tutto per vincere».
Se si aggiungono le riflessioni sul mercato e le difficoltà di una società che cerca le occasioni giuste a differenza di avversari che scelgono (e centrano) i loro obiettivi, il quadro è un po’ più completo: «Abbiamo una squadra che per migliorarla bisogna investire delle somme che ora non possiamo investire. Ora ci stiamo dirigendo su Feghouli. Rincon alla Juve e Pavoletti al Napoli? Sono giocatori mirati, scelti. Rincon piaceva anche a noi». La chiusura del cerchio dà la misura di un tecnico capace di affrancarsi dalle cattive abitudini italiane, ma allo stesso tempo anche dal proprio futuro in giallorosso: «Se andrei alla Juve? Mi cogliete di sorpresa. Io però faccio questo di lavoro, sono un professionista, non vedo perché ci si mette solo la Juventus e basta, ci si poteva mettere anche la Fiorentina, l’Inter, il Milan, vado da tutte le parti ad allenare». Massimiliano Allegri sostanzialmente dice il contrario, prevenendo qualsiasi domanda sul suo futuro: «Sto bene alla Juventus, sono contento di stare qui e spero di rimanere il più a lungo possibile». Allora dove sta la freddezza? Lo sfogo di Doha dopo la sconfitta in Supercoppa («Li prenderei tutti a calci») non è passato inosservato e viene rivendicato dal tecnico a oltre due settimane di distanza.
Con una premessa («Lo sfogo non c’entra niente col mio futuro, sono due cose completamente separate») non richiesta e per questo un po’ curiosa: «È stato semplicemente lo sfogo di un allenatore che tiene in modo particolare al lavoro. E poi dopo tante volte, milioni di volte, in cui ho elogiato i ragazzi per quello che hanno fatto e per quello che stanno facendo, consentitemelo: noi dopo 35 minuti seri siamo usciti dalla partita, con una gestione sbagliata e per 85’ minuti siamo stati meno seri. E questo non va bene. Per cui mi sono molto arrabbiato, ma credo sia normale». Meno normale, nell’ottica di Allegri è che quando la Juve vince siano esaltati i campioni e il mercato (a proposito: Evra, che ha le valigie pronte per la Spagna o l’Inghilterra, non è stato convocato) e quando perde venga attaccato il tecnico, associandolo magari a nuove panchine (in questo caso soprattutto quella dell’Arsenal). Succede dappertutto, ma solo attraverso una maggiore responsabilizzazione dei giocatori la Juve può arrivare più forte e compatta alla campagna di primavera in Champions e campionato: la vera stagione del disgelo.