La notte non aveva dormito, non dormirà molto nemmeno in seguito (“Fu terribile, non ci riuscivo, la notte mi tormentavo con il rimpianto. Ero spesso sul punto di dire: “Ma che addio, Rocca è più forte di tutto””): era il 3 agosto 1981, il giorno prima il ginocchio era tornato a gonfiarsi. Il giorno prima era il suo compleanno. Se capisci di smettere il giorno che è tutto iniziato il vuoto è più vuoto.
Come quando lo vedi dove è sempre pieno, addirittura in Curva Sud. Perché quella notte di fine agosto del 1981, il giorno del suo addio al calcio contro il Porto Alegre, poco dopo le 21, quando Francesco Rocca finisce il suo giro di campo sotto la Sud, di fronte a quello striscione, la Curva non è vicina come avrebbe voluto qualsiasi romanista: lavori di ristrutturazione avevano imposto la chiusura di alcuni settori, proprio quelli “sotto”; quelli più vicini a Francesco.
Rocca che era uscito dopo 19’ come previsto (“Non so quanti palloni potrò giocare, ma cercherò di giocarli a modo mio e dimostrare al pubblico che ho smesso solo per rispetto verso di loro, dimostrargli quello che avrei voluto dargli per 90’ e che non gli posso dare più”) allora alza le braccia, quasi a indicarla, come ad abbracciarla la Sud in quell’attimo in cui lui sta letteralmente facendo la curva della sua vita.
Prende la targa della squadra, la medaglia dei tifosi, la sciarpa da un ragazzo e sparisce nel tunnel. È quel vuoto, quel marmo bianco che mi fa pensare. Quel bianco dove è sempre stato giallorosso, quel vuoto dove è sempre stato pieno. Proprio quel giorno. Era come se l’architettura dello stadio, o il caso, o il caos, la vita avessero a suo modo omaggiato Rocca: il giorno del tuo addio, la tua assenza diventa reale, autenticamente profonda, una ferita da sottolineare. Come a dire: ci si può strappare davvero l’anima e farla vedere.
Quel bianco proprio quel giorno, mentre sopra tutto il Commando cantava “Lode a te, Francesco Rocca!”. Quel bianco… Come un pudore, come qualcosa da salvaguardare assolutamente e insieme da scrivere, da compiere ancora, non solo un doveroso magico silente estremo omaggio, ma un invito… Amor che vince il tempo e resta intatto… Sotto quello spicchio vuoto c’era quello striscione “Lotta con il cuore vinci il tricolore”, quando il 15 maggio 1983 Roma festeggerà dopo 41 anni il suo tricolore vinto col cuore sotto quella Curva, accompagnato da Gilberto Viti, ci sarà nuovamente Francesco Rocca.
Non può essere mai un caso che quel giorno atteso da generazioni di tifosi (quante vite ci stanno dentro 41 anni? Quanti sogni? Quanto dolore, Francesco?) in Curva tornava lo striscione Commando Ultrà Curva Sud. Il tricolore, Rocca, il Commando: tutti insieme senza darsi nessun appuntamento là. Non è un caso, ma la volontà di un campione e di un uomo romanista che il 30 maggio 1984 chiamato da Antonio Bongi – uno dei fondatori del Cucs – scavalca e va in Curva Sud non a vedere la finale di Coppa dei Campioni Roma-Liverpool, ma a tifare la Roma nella finale della Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Sul muretto. In piedi. Col megafono. A lanciare i cori, a spronare i ragazzi, per la Roma.
Per la Roma. Per la Roma. Francesco Rocca era in Curva Sud con gli ultrà nella notte più profonda della nostra vita. Francesco Rocca, la più grande promessa del calcio, il ragazzo che a vent’anni s’era preso già tutto e che a ventisette ha dovuto ritirarsi, il nostro rimpianto, la nostra assenza, il nostro infortunio, quella notte ha guidato la Roma nella partita più importante della sua storia, nella maniera più romanista possibile. Non si è mai ritirato Francesco Rocca.
Io credo che quando vinceremo la cosa più grande dovremmo fermarci e fare scendere una volta ancora in campo Francesco Rocca per fargliela alzare. Glielo dobbiamo per quanto ha sofferto, per come si è comportato, per quanto ci ha provato, per come ha onorato la Roma in campo, in allenamento e ancora oggi, ingoiando rabbie e parole che qualsiasi essere umano farebbe difficoltà a non urlare.
Il giorno della Hall of Fame, quando è stato chiamato per il giro di campo, lo speaker ha detto che ritornava all’Olimpico dopo trentuno anni, in pochi lo sapevano, ancora in pochi lo sanno, che Rocca stava in Curva Sud quella notte. È entrato, ha guardato solo la Sud, ha applaudito con le braccia sopra la testa, poi si è raccolto in una smorfia di commozione, ha stretto la mano destra in un pugno e se l’è stretta al cuore guardandola. Credo significhi ti amo.
FONTE: Tratto da “Figli di Roma, Capitani e bandiere” di Tonino Cagnucci per Il Romanista; Newton Compton)