Tammy Abraham lo guarda, lo chiama: Paulo, Paulo…. E gli manda un bacio. Per sessantotto minuti il ritorno a Torino era stato un incubo per Paulo Dybala. Poi, quell’unico sorriso: una sforbiciata ripescando in fondo a un barile di nostalgia il colpo da fuoriclasse, depositando sulla testa di Abraham la palla che ha permesso alla Roma di prendersi un punto.
Ma mentre gli altri esultavano, lui ha preso il pallone per riportarlo a centrocampo. Un segnale per dire “proviamo a vincerla”, o un modo per non festeggiare contro quella maglia. Allo Stadium s’era presentato con un volto che era tutto un programma: la rappresentazione materica della tensione che doveva avvertire, e che nemmeno la pratica dello yoga, a cui da un paio d’anni si dedica con un certo interesse, ha saputo allentare.
In tutto, appena 38 palle giocate, due perse, un solo dribbling per far ammonire Locatelli. E nemmeno un tiro, nei 78 minuti in campo. L’unico pallone toccato nell’area della Juventus da Dybala è stato proprio quell’avvitamento, sfruttando il talento naturale della Roma nel trasformare un corner in un’occasione – da quando c’è Mourinho, 13 gol dalla bandierina: nessuno così tanti. José, che ne conosce l’indole, lo ha coccolato: “La gente pensa che faccia la differenza quando segna o fa un assist, ma appena si avvicinava all’area si sentiva una reazione di paura dello stadio, sono molto contento di Paulo, Frastornato? Sì, dalla squadra, non dall’ambiente“.
Chissà se è vero: la curva juventina lo chiamava chiedendogli di avvicinarsi, lui si è limitato ad alzare una mano. Anche per questo forse, quando Mourinho ha deciso che la sua partita era esaurita, qualcuno, da quel settore, ha infilato dei fischi nella raffica di applausi nostalgici.
FONTE: La Repubblica – M. Pinci